The Project Gutenberg eBook of Una misura eccezionale dei Romani, Il senatus-consultum ultimum

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Title: Una misura eccezionale dei Romani, Il senatus-consultum ultimum

(studio di storia e di diritto pubblico romano)

Author: Corrado Barbagallo

Release date: October 13, 2025 [eBook #77044]

Language: Italian

Original publication: Roma: Loescher, 1900

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

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UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM


CORRADO BARBAGALLO

UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI

IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM

(STUDIO DI STORIA E DI DIRITTO PUBBLICO ROMANO)

ROMA
ERMANNO LOESCHER & C.º
(BRETSCHNEIDER E REGENBERG)
1900


Catania — Tip. Sicula di Monaco e Mollica


[iii]

INDICE

Prefazione.

Cap. I.Due s. c. u.ª dei secoli V e IV a. C. Un s. c. u. del 464 o 463. La condizione dei debitori nella prima metà del sec. IV. M. Manlio Capitolino, l’agitazione plebea e il s. c. u. del 381. Discussione sulla realtà storica del s. c. u. del 464. Discussione sulla realtà storica del s. c. u. del 381.

Cap. II.I s. c. u.ª posteriori alla prima metà del IIº sec. a C. La quistione agraria nel II. sec. a. C. L’opera di Tiberio Gracco e il tentativo di s. c. u. del 132. L’opera di C. Gracco e il s. c. u. del 121. Il s. c. u. del 100. Il s. c. u. dell’83. Il s. c. u. del 77? Il s. c. u. del 63. Il s. c. u. del 62. Il s. c. u. del 52. Il s. c. u. del 49. Il s. c. u. del 48. Il s. c. u. del 47. Il s. c. u. del gennaio 43. Il s. c. u. del 29 maggio-19 agosto 43. Il s. c. u. del 40. S. c. u.ª dopo la repubblica?

Cap. III.Il Senatus consultum ultimum. Origine del nome; occasioni in cui il s. c. u. è votato; esclusione dell’intercessio; persone da cui moveva; luogo e ora in cui si poteva votare; formula; persone a cui affidava la difesa della repubblica e modalità dell’affidamento. Misure d’ordine generale (dichiarazione d’hostis publicus, tumultus, iustitium). Misure speciali nel caso di una guerra estera, o di un’agitazione interna. Modalità dei giudizii contro i ribelli in aperta sedizione. Modalità dei giudizii contro i cospiratori. Misure speciali contro i magistrati ribelli all’osservanza della legge. Il s. c. u. nei suoi rapporti coi tribuni e coi comizi. Dopo il s. c. u.; durata del medesimo. Considerazioni generali sulle caratteristiche della misura.

Cap. IV.L’incostituzionalità del s. c. u. I populares contro il s. c. u. Loro accuse. Novero delle incostituzionalità. Difese degli optimates. Un’osservazione sulla modalità della procedura seguita dai populares contro i responsabili del s. c. u. Un’ultima considerazione.

[iv]

Cap. V.Dal senatus-consultum al senatus-consultum ultimum. Il s. c. u. e la storia del senato romano. Le ingerenze del senato nell’ambito del potere esecutivo. Il senato contro i tribuni. Il senato e i privati. Il s. c. u. o il dritto di muover guerra. Il senato e l’ius provocationis. I tribunali straordinari dei tempi ordinari e i tribunali straordinari in seguito ad un s. c. u. Il senato e il potere legislativo. Conclusione.

Cap. VI.Cagioni dell’origine, della durata e della fine del s. c. u. Carattere storico del s. c. u. Fine della lotta patrizio-plebea. Lotta fra optimates e populares, e relazioni di codeste due classi colle istituzioni dello stato. Lotta tra optimates e populares nelle quistioni agrarie, politiche, giudiziarie, sacerdotali. Fine della dittatura seditionis sedandae causa. Il s. c. u. invece della dittatura seditionis sedandae causa. Riforma cesariana della costituzione. L’impero e la fine del s. c. u. Conclusione.

[v]

INDICE DEI CAPITOLI

Prefazione pag. VII
Cap. I. 1
Cap. II. 11
Cap. III. 53
Cap. IV. 81
Cap. V. 97
Cap. VI. 111

[vii]

PREFAZIONE

Come si rileva dal titolo, con queste pagine io ho voluto scrivere un lavoro di storia e di dritto pubblico. Ho quindi mirato ad un triplice scopo: 1) narrare accuratamente i vari casi, pei quali in Roma fu votato il s. c. u.; 2) ricostruire la situazione giuridica, che allo stato romano imponeva tale misura eccezionale; 3) spiegarne la natura particolare in relazione con la situazione politica e sociale del tempo.

Però mentre non dubito che i due primi punti andranno esenti da controversie e da attacchi più o meno ostili, non posso dire altrettanto del terzo.

Per i più degli studiosi la storia deve limitarsi alla semplice narrazione degli eventi, ed abborrire sdegnosamente da ogni sguardo sintetico e generale, come, se così facendo, si fosse costretti ad uscire dal campo della scienza per entrare indeprecabilmente in quello della retorica e dell’ignoranza.

A me quindi non resta se non replicare che si tratta di una divergenza teorica sul contenuto della nostra disciplina e che, per conto mio, accetto l’opinione, che stimo più razionale e che venne formulata magistralmente dal Bernheim‍[1].

Ma la difficoltà sta in ciò, che qualora, dopo aver [viii] narrato, si voglia avere la precisa concezione del moto delle energie di una data società in un dato periodo, occorre una dottrina del funzionamento della società in genere, la quale ci guidi a connettere certi dati fatti con certi altri ed a porli come loro causa od effetto.

La teoria direttiva, in tal caso, è l’ipotesi che spiega e che è tanto meglio verificata dagli eventi storici, quanto più soddisfacentemente li spiega.

Or bene tutto ciò non è che un desideratum, dappoichè la sociologia, che soltanto ce la potrebbe offrire, un po’ per colpa di coloro che ne trattano quotidianamente, un po’ per l’avversione dei letterati e degli storici di professione a qualsiasi disciplina teorica, suscita ancora troppi sorrisi e troppo scetticismo.

Ciò non ostante, io credo che non si possa deplorare abbastanza gli effetti di una siffatta trascuranza, quando si osservi in che modo i quotidiani libri di storia spiegano e giudicano i fatti storici.

Interi secoli di vita sociale sono considerati come un intrigo di ambiziosi, di violenti e di corruttori. Quando non vi si sostituisca la mano di Dio, è l’imperativo categorico del destino e del progresso, ciò che guida gli eventi ed i popoli a determinate soluzioni. I partiti e gli uomini avversi al governo e a date istituzioni non possono non essere un sozzo reclutamento di facinorosi destinati ad aver torto. Peggio ancora, se da questi fatti generali si scende ad esempi concreti. Gli astiosi e parziali pettegolezzi di politica quotidiana, registrati sulle fonti, che spesso sono tali a distanza di secoli, inquinano e falsano la maggior parte dei nostri giudizi; nè, per sottrarcene, basta la pratica della minuta storiografia.

[ix]

Nella spiegazione quindi del fenomeno sociale da me studiato ho cercato di tenermi lontano da codesto inconsapevole dilettantismo, ed ho seguito l’unica ipotesi sociologica, che credo veramente seria, contenuta nella concezione materialistica della storia, intesa — s’intende — nella sua maniera più criticamente accettabile.

I lettori giudicheranno se io abbia violentato i fatti, e gli storici di professione, se a me spetti di subire la scomunica.

Da questa ricerca infine mi si è insinuata sotto mano, senza che io me ne avvedessi, una lezione di morale storica e politica. Rimesse sulle prosaiche rotaie delle realtà, le misure eccezionali d’ogni tempo e d’ogni luogo mi sono apparse tali quali il lettore le troverà, ed il loro velo tradizionale di equità o di giustizia mi si è per via miseramente dileguato.

Historia magistra vitae! sono stato più volte tentato di esclamare. Ma — pur troppo — gli uomini determinano la loro condotta, non già in base alle astratte nozioni della morale o delle teorie sociologiche, ma sotto l’impulso decisivo di circostanze, bisogni, ed interessi immediati, e le future sirti del gran mare della storia, di là da incontrare, non ànno, per essi, somiglianza alcuna con le altre del passato, di cui hanno imparato a conoscere la natura.

Ed anche ad ammaestrarci di tale verità può, a rigor di logica, essere capace soltanto la concezione materialistica della storia.


UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI
IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM

[1]

CAPITOLO I. Due s. c. uª[2] dei Secoli Vº e IVº a. C.

I.

La più semplice e cauta definizione di s. c. u. è quella di misura eccezionale di salute pubblica, per cui il Senato delega poteri ugualmente eccezionali ai consoli, o, insieme con essi, ai tribuni e ad altri magistrati rivestiti d’imperium, mediante la formula più usitata: «Videant consules ne quid respublica detrimenti capiat».

I due primi s. c. uª ci vengono ricordati da Livio, l’uno, come del 464 o 63, l’altro, come del 381 a. C.‍[3]

Narra egli‍[4] che al 464 erano consoli A. Postumio Albo e Spurio Furio Fuso. A quest’ultimo toccò di guerreggiare contro gli Equi. Fu data battaglia, mentre costoro saccheggiavano le terre degli Ernici: l’esercito romano fu sconfitto e circondato insieme col console. Gli Ernici portarono a Roma la triste notizia, e misero il Senato in tanto spavento, che fu commesso all’altro console «videre ne quid respublica detrimenti capiat», «quae forma senatus consulti ultimas semper necessitatis habita est».

Fu allora ingiunto al console residente in Roma di [2] recarsi, quanto più celeremente potesse, in aiuto del collega; ma poscia si reputò più opportuno farlo rimanere per l’arrolamento di tutti coloro «qui arma ferre possent», e inviare in sua vece T. Quinzio, che l’anno precedente avea guerreggiato contro gli Equi. Fatte le leve, Postumio si recò al campo.‍[5]

Sarebbe questo — per dir così — un s. c. u. rei gerundae causa.‍[6] Il secondo invece fu votato seditionis causa; e costituì uno degli atti posteriori all’agitazione plebea del 382, capitanata da M. Manlio Capitolino, il memorando salvatore del Campidoglio.

II.

M. Manlio è una delle figure più simpatiche della storia civile di Roma, quantunque la sua biografia ci sia stata tramandata con una certa ampiezza solo attraverso l’ostile narrazione di Livio.

I plebei, sia che si accetti l’opinione del Niebuhr,‍[7] del Mispoulet‍[8] e del Becker,‍[9] che li considerano come i vinti di Roma, sia quella del Mommsen‍[10] e del Willems,‍[11] per cui essi non sarebbero se non una trasformazione della clientela, gli è chiaro che nei [3] rispetti economici debbano in ogni modo essere ritenuti come una classe inferiore alla patrizia, la quale, per la limitazione dei diritti civili, in cui era costretta, si trovava impotente a migliorare la propria condizione.

Alla metà del sec. V., persino gli aerarii[12] erano stati sottoposti all’obbligo del tributum e del servizio militare.‍[13] Cosicchè, mentre prima non erano tassati che i possessori di proprietà fondiaria, ora l’imposta gravava su ogni forma di possessione.‍[14] Pare anzi verisimile che quella degli aerarii fosse ancora più grave che non pel rimanente dei cittadini.‍[15] L’indennità personale, che, dopo la guerra di Veio (406), veniva concessa alla fanteria, formata in massima parte di plebei, subiva la detrazione delle spese per le forniture,‍[16] e se l’introito dell’erario non era sufficiente, il deficit veniva tosto colmato da un’imposta sui medesimi.‍[17]

La ripartizione delle terre conquistate, unico beneficio che la romana politica militaresca avrebbe potuto loro procurare, non era, nè in dritto nè in fatto, uguale pei patrizi e pei plebei‍[18].

Al termine di ogni guerra essi ritrovavano i campi [4] mal coltivati, i fitti arretrati, l’azienda domestica in rovina, seppure — (allora le guerre si combattevano in regioni limitrofe alla capitale) — i loro beni non avessero patito saccheggi e devastazioni.

Così le lunghe campagne degli ultimi anni, la ricostruzione di Roma in seguito all’invasione dei Galli, l’assenza d’ogni commercio aveano sempre più imposto la necessità di contrarre debiti.

Per la classe governante questo era il mezzo migliore d’assoggettamento della plebe, venendosi con le sue conseguenze alla espropriazione e all’asservimento di metà dei cittadini.‍[19]

Troviamo infatti nelle XII tavole una legislazione severissima contro i debitori. Il debitore insolvibile veniva, dietro sentenza del magistrato competente (manus iniectio) messo nel dominio quiritario del proprio creditore (addictio). Per dare agio al pagamento gli si accordavano trenta giorni, trascorsi i quali, il creditore era in facoltà di portare il debitore a casa sua, imprigionarlo, legarlo a una gogna (nervum), tenervelo per il collo o pei piedi, caricarlo di catene, e, per due mesi, cibarlo con una libbra di biada al giorno. Poscia lo esponeva nel comitium del foro per tre mercati consecutivi; e, se nessuno avesse pagato, l’infelice soggiaceva alla vendita o all’uccisione. Se i creditori erano più d’uno, potevano spartirsene le membra in proporzione del loro credito.

Ma la forma di contratto, che troviamo allora più usitata, il debito per nexum, dispensava dalla succennata procedura. Era desso un surrogato della sentenza: il [5] debitore s’impegnava come schiavo nel caso d’insolvibilità, garanzia vivente del saldo della propria obbligazione.

Gli effetti penali del contratto si estendevano ai componenti la famiglia del debitore. E, quando si riflette che negli ultimi tempi le sentenze giudiziarie aveano reso suscettibili delle pene specifiche pei debitori i reati per indennità o ammende non pagate, si capisce facilmente quanto fosse divenuta penosa la condizione dei plebei.‍[20]

III.

Manlio,‍[21] un patrizio passato alla classe opposta, cominciò a ricercare la coscienza della plebe, proponendo o la generale estinzione dei debiti esistenti, oppure, se non una riforma delle leggi agrarie, come dichiara Livio,‍[22] una vendita del demanio pubblico ancora indiviso, allo scopo di scaricare i plebei del saldo dei loro debiti col ricavo della medesima.‍[23]

L’agitazione impose la nomina di un dittatore, il quale si volle far credere necessario per la guerra coi Volsci. Partito a tale scopo da Roma, fu richiamato [6] in fretta dal campo, e, pigliando occasione di un’accusa, messa fuori da Manlio contro i patrizi, per dell’oro pattuito con i Galli e sufficiente a liberare la plebe dai debiti,‍[24] la dimane, dopo aver convocato il senato, citò in piena assemblea centuriata il patrizio sobillatore perchè si scolpasse dal sospetto di calunnia. Ne seguì l’arresto. I plebei tacquero; ma i più di loro furono visti, di lì a pochi giorni, vestiti a bruno aggirarsi numerosi intorno alle mura della prigione. Fu necessità rilasciare Manlio, il che fornì un duce all’agitazione.

Il Senato decise «d’incaricare i magistrati perchè provvedessero a che la republica non patisse alcun danno». E qui, narra Livio, avvenne un fatto abbastanza strano.

I tribuni militares consulari potestate e gli stessi tribuni plebei accusarono Manlio dinnanzi ai comizi di avere aspirato alla restaurazione della monarchia.

L’assemblea, dal campo di Marte, donde si scorgeva il Campidoglio, monumento della gloria dell’imputato, venne trasferita nel bosco Petelino.

Colpito da condanna capitale, Manlio fu dai tribuni precipitato dalla rupe Tarpea.

IV.

Si è dubitato di ambedue i precedenti s. c. uª e per varie ragioni.

Il Mispoulet‍[25] vi sospetta un’invenzione aristocratica [7] di tempi posteriori, intesa a consolidare con la tradizione la legittimità di una misura non riconosciuta mai come legale dai partiti democratici.

Il Mommsen‍[26] e il Willems‍[27] li ritengono un procronismo, 1) perchè debolmente connessi col resto del racconto, 2) perchè, nell’un caso, l’indizione delle leve, nell’altro, l’accusa tribunicia vengono, cosa insolita, introdotti da un s. c. u.

Non è male ripigliare in esame la questione, e, sopratutto, distinguere il primo caso dal secondo.

Quanto al primo è a notare, come abbiamo fatto, che esso è l’unico che sia stato suscitato da una guerra all’estero, cosa che però non deve indurci in sospetto. Un provvedimento, che servì in origine a un determinato scopo, può, per nuove condizioni sopraggiunte, venire usato ad intendimenti opposti.

La dittatura implicava una perdita di tempo pericolosa. Occorreva che il Senato proponesse ai consoli, spesso assenti, la sua decisione, che questi designassero il candidato, e che i comizi ne ratificassero i poteri.

In vista della salvezza della patria era senza confronto più agevole trasmettere direttamente i pieni poteri al console rimasto in città.

Livio, d’altronde, è troppo preciso ed esplicito, non subisce contraddizioni nè sospetti di tendenziosità, ed è noto come ciò che più l’onora, quale storico, è l’incapacità di dire il falso sapendolo falso. A chi poi osservasse che anche Dionigi narra il fatto, ma senza accenni ad alcun s. c. u., si dovrebbe rispondere che Dionigi non conosce s. c. u.ª

[8]

V.

Meno evidente apparisce l’attendibilità della seconda menzione liviana.

1. Livio per l’anno precedente ci à fatto parola di un dittatore, il cui ufficio, di regola semestrale‍[28], pare sia dovuto scadere parecchio tempo prima del giorno della condanna di Manlio‍[29]. Ma Livio stesso menziona, come avvenuta quest’anno, la nomina di un magister equitum, C. Servilio,‍[30] che precede di poco la morte di Manlio. Un magister equitum presuppone un dittatore, il che esclude la possibilità di un s. c. u.

Sull’esistenza di un dittatore insiste Dione Cassio,‍[31] il quale ricorda come tale Camillo, dittatore per la quarta volta. Dione è contraddetto da Livio, per cui la quarta dittatura di Camillo sarebbe anteriore di parecchi anni‍[32]. Ma Plutarco, che adesso ricorda Camillo come tribunus militaris c. p., e che, contrariamente a Livio, ne riferisce la quarta dittatura come posteriore alla sedizione manliana,‍[33] pone in suo luogo dittatore uno dei due Quinzii Capitolini!‍[34].

[9]

2. Nel liviano processo di Manlio pare non si sia venuto mai meno alla concessione del dritto di provocatio, l’appello al popolo, che è escluso recisamente dalla procedura giudiziaria esistente sotto l’impero del s. c. u.

Ma se da Livio, il solo a parlarci di tale concessione, passiamo alle versioni, che, del giudizio e della fine di Manlio, ci dànno Plutarco,‍[35] Dione,‍[36] Diodoro Siculo‍[37] e Dionigi,‍[38] siamo costretti a dubitare gravemente dell’ammirata legalità.

Già Livio stesso ci avverte che, secondo alcuni annalisti, la condanna sarebbe stata pronunziata dai duoviri perduellionis. Ma dalle altre fonti si ricava altresì come i differimenti della sentenza siano stati più di uno, e tutti, non già nello specioso intento di scansare la vista del Campidoglio, (sarebbe bastato uno solo), ma allo scopo di strappare ai giudici la condanna dell’imputato.

E il Niebuhur, sorpreso di ciò, fa, sulla dizione di Livio, un’osservazione gravida di conseguenze. — Visti, [10] dice Livio, gli ostacoli, che alla condanna porgeva il primo consesso «cum centuriatim populus citaretur», Manlio fu portato dinnanzi al «concilium populi». — Ma — osserva il Niebuhur — concilium non è che la riunione di una parte sola della nazione, non già di tutta la nazione, come avviene pei comizi centuriati,‍[39] che «nessun annalista avrebbe» così «denominati».‍[40] «Non vi è dubbio che le centurie» «abbiano prosciolto» l’accusato; «e, se ci si dice che il giudizio fu differito, non è che per soggiungere che il tribunale che lo condannò fu sempre lo stesso».‍[41]

L’ultimo giudizio di Manlio dovette invece essere tenuto nell’assemblea delle curie.

Poteva tutto ciò darsi senza provvedimenti eccezionali?

Nè durante i secoli dell’impero, nè tanto meno sotto la republica, avevano i comizi curiati posseduto alcuna competenza giudiziaria. Nè, se dittatore ci fosse stato, avrebbero i patrizi subito la necessità di ricorrervi.‍[42]

[11]

CAPITOLO II. I s. c. uª posteriori alla prima metà del IIº sec. a. C.

I.

Dal 381 alla seconda metà del II. sec. non si riscontra nelle fonti traccia alcuna di s. c. u.ª

Il primo che vi seguì fu votato 260 anni dopo, e precisamente contro Caio Gracco. Se non che, essendo questo preceduto da un tentativo di s. c. u. contro Tiberio, e non potendosi l’opera di Caio spiegare senza quella del fratello, sarà bene rifarsi dalle origini della questione.

Da Tiberio‍[43] ebbe principio una serie importantissima [12] di proposte e di riforme economico-sociali concernenti i bisogni più vitali della società romana del suo tempo.

La ricchezza‍[44] della popolazione della republica era fondata, non già sul commercio o sull’industria, l’uno e l’altra di uno sviluppo scarso e primitivo, sibbene sull’agricoltura. Se non che un numero svariato di cause aveano, sin da prima della seconda metà del IIº secolo a. C., mutato sostanzialmente gli antichi rapporti fra il suolo e i suoi detentori, come fra i detentori medesimi. Anzi tutto le continue guerre ed il lungo servizio militare distoglievano dai lavori campestri e decimavano il numero dei possidenti, tra i quali, come censiti‍[45], si reclutavano, in massima parte, le legioni. Tale condizione si era aggravata negli ultimi anni, durante i quali le guerre si erano combattute in regioni lontane od estere: nord Italia, Spagna ed Africa.

Lo scarso prodotto delle possessioni era stato contemporaneamente colpito dalla concorrenza del grano della Sicilia, della Spagna e della Sardegna, di recente conquistate, e dal fatto che l’approvvigionamento dell’esercito, fonte d’enormi guadagni, toccava in pratica ai più grossi possidenti, i quali figuravano tra le persone più cospicue della capitale, arrogandoselo per avere in mano il governo, o facendosene conferire l’incarico.

[13]

A rimediare a tanto danno occorrevano dei capitali, coi quali lavorare con metodi progrediti la terra. Ma la scarsezza, in cui i piccoli possidenti se ne trovavano, importava il loro assoggettamento ai grandi detentori di proprietà fondiaria, i quali, cominciando col rendersene creditori, terminavano collo spogliarli dei propri beni per via di espropriazioni, che riescivano più numerose e più inique durante l’assenza del pater-familias, quando non si opponevano più limiti alla violenza del ricco vicino.

Spesso l’espropriazione era volontaria. I grandi possidenti, che, giusta la tradizione o le leggi romane, subivano il divieto di riversare il proprio capitale nelle industrie e nel commercio, erano sempre pronti a comperare lotti di terra, con cui arrotondare i propri latifondi; e le disperate condizioni del piccolo possidente rendevano questo proclive a cedere alle condizioni meno peggiori il proprio possesso.

D’altro canto l’affidamento dell’agricoltura in mano degli schiavi, capaci di un lavoro prolungato e numeroso, ma al cui sostentamento potevano solo sopperire i più grossi possidenti, non aveva che accelerato la scomparsa della piccola proprietà, sostentata dallo scarso lavoro individuale dell’assente proprietario, e perciò incapace a resistere alla concorrenza.

Cicerone, che era pure un aristocratico e un conservatore, confesserà che al suo tempo il vasto suolo della republica era nelle mani di duemila cittadini.‍[46] Tutti i rimanenti o figuravano come veterani tra le file dell’esercito, o dalle campagne erano accorsi alla capitale, [14] dove la vita costava relativamente poco, a costituire quel proletariato urbano, che sarà la piovra e la zavorra della vita pubblica e privata della republica e dell’impero.

Esso, mentre da un canto era reclutato fra i contadini, vittime della concorrenza della piccola con la grande proprietà, veniva altresì costituito dalle classi lavoratrici, sia agricole, sia industriali, ormai soccombenti dinnanzi all’irrompere del lavoro servile, molto più comodo‍[47] e meno costoso del libero. E qui, nella capitale, esso viveva da parassita dei privati e dello stato, il quale, sebbene non avesse ancora ricorso alle largitiones e alle frumentationes, era già costretto a comperare il grano dalle province per rivenderlo ad un prezzo inferiore al costo.

Le funeste conseguenze della formazione di eserciti, costituiti in gran parte di veterani, non erano ancora palesi. Lo erano invece, pur troppo, quelle altre, a cui portava il sistema di agricoltura a schiavi, l’unico capace di profitto.

Il ricco latifondista non viveva più nella campagna, ma in città, abbandonando quella al villicus, il capo degli schiavi, il quale mirava a trarre dalla terra per sè e pel suo padrone il maggior frutto con la maggior fatica dei suoi dipendenti e la minor quantità possibile di capitale affidatogli. Gli schiavi, dal canto loro, eludevano il lavoro, ogni volta che lo avessero potuto, dandosi più alla rapina che all’agricoltura, e, noncuranti o senza esperienza, coltivavano male o maltrattavano [15] i buoi e gli istrumenti‍[48]. L’agricoltura, ogni anno, presentava una produzione geometricamente decimata e sempre più insufficiente ai bisogni della popolazione.

Peggiori poi erano i ripentagli, a cui la schiavitù metteva la sicurezza dello stato.

Sempre pronti alla ribellione, perchè quotidianamente torturati, gli schiavi si prestavano facile istrumento in mano di ambiziosi o di nemici; o, se questi fossero mancati, non tralasciavano di spiare le occasioni di ribellarsi per conto proprio.‍[49]

Così al 198 si era sollevato il Lazio, al 196 l’Etruria, al 185 l’Apulia, al 134 la Sicilia, per terminare al 133 con la ribellione collettiva di Minturnae, Sinuessae, Delo, l’Attica, Pergamo, Nuceria, Bruzzio.

Rimedio contro tutto ciò era la stabile ricostituzione del ceto dei contadini allo scopo di far rifiorire l’agricoltura nazionale. E a ciò pareva che le condizioni stesse di Roma offrissero facile la via, stante l’esistenza di numerose terre demaniali.

Lo stato romano infatti possedeva la larga proprietà stabile dell’ager publicus, costituito dai territori conquistati. Di essa, una parte era adsignata viritim a privati o usata quale ager colonicus, una era dotazione del culto, una era concessa ai singoli cittadini con la riserva del diritto di proprietà, e una, serbata ai bisogni pubblici, veniva data in affitto o in uso a privati, sotto prescrizione d’imposta, o istituzione di monopoli, o diritto a riscossione di gabelle.

In senso ristretto, con la qualifica di ager publicus, [16] si indicavano appunto queste due ultime forme di possessione, ed esse concernevano le leggi agrarie.

Se non che, il possesso del suolo demaniale era rimasto accumulato nelle mani di quella stessa classe della cittadinanza, che avea confiscato tutte le proprietà rustiche d’Italia.

Una legge Licinia del 167 avea vietato la possessione di più di cinquecento iugeri di terreno demaniale per ogni pater familias; ma era stata presto elusa dai nobili, i quali, cominciato col far comparire di possederne di meno, mentre altri occupava per loro il soprappiù, aveano terminato per violarla apertamente.

Occorreva per lo meno spostare tale situazione con nuovi espedienti legislativi ed a ciò si rivolgeva l’opera del partito radicale.

II.

Tiberio Gracco perveniva al tribunato nel 134. La sua lex agraria è del 133. Essa aveva per unico obbietto le possessiones italicae dell’ager publicus, sulle quali lo stato si riserbava un dritto di proprietà. Secondo la sua legge gli antichi possessori potevano continuare ad occupare i 500 iugeri di terreno per ogni pater-familias, concessi dalla legge Licinia, più 250 per ogni figliuolo, purchè la famiglia non ne possedesse complessivamente più di 1000. Anzichè infliggere pena alcuna ai violatori della legge Licinia, Tiberio chiedeva che lo stato indennizzasse i possessori del dippiù, che ora dovevano restituire‍[50]. Stabiliva infine che tutte queste terre demaniali [17] sottratte fossero spartite viritim ai meno abbienti, trenta iugeri per ogni pater-familias.

Si volea così creare una classe di contadini possidenti, che scemasse il proletariato delle città e delle campagne, alla conservazione della quale provvedeva una clausola vietante ai nuovi possessori l’alienazione della proprietà.

Un’annuale commissione di tre membri, eletta dal popolo, dovea curare l’esecuzione della legge.

I nobili videro in essa un attentato ai propri interessi e si rivolsero al tribuno Ottavio, perchè ne impedisse con la sua intercessio la votazione. Tiberio, dopo lungo esitare e pregare, propose che le tribù scegliessero tra lui ed Ottavio. Quest’ultimo fu deposto, e la legge passò.

Il Senato, allora, cominciò ad osteggiare e calunniare Tiberio in tutto quanto poteva; e, per dippiù, ad apporgli ad accusa la deposizione del collega.

Tiberio si preparava a un secondo anno di tribunato‍[51] con delle proposte di leggi non meno importanti della succitata: 1) riduzione del servizio militare, 2) dritto d’appello al popolo per ogni sentenza giudiziaria, 3) uguale numero di senatori e di cavalieri nei tribunali penali pei reati di azione pubblica, proposte che saranno, una per una, ripigliate dal fratello Caio.

[18]

Ma, il giorno dell’elezione, un amico di Tiberio, Flavio Flacco, lo avvertì che i senatori divisavano di ucciderlo, non ostante un reciso rifiuto del console.

I più intimi di Tiberio cinsero allora le toghe, e, spezzate le aste degli incaricati a tenere a bada la folla, se ne armarono. Quelli che erano distanti, pieni di meraviglia, chiedevano a vicenda la ragione del fatto. Tiberio si toccò il capo con la mano, volendo accennare al pericolo che correva. Gli avversari corsero al Senato, annunziando ch’egli chiedeva il diadema‍[52]. Avendo il console nuovamente declinato l’incarico della repressione, [19] P. Scipione Nasica, «princeps senatus», un nobile, ferocemente avverso alla riforma demaniale, invitò i senatori ad armarsi e seguirlo.

Tiberio fu ucciso, (luglio 133).‍[53]

Il Senato vittorioso conferì ai consoli dell’anno seguente (132), Rupilio e Popilio Lenate, la facoltà di agire contro i partecipi dell’agitazione sopravvissuti‍[54].

All’infuori di più di trecento, periti nella mischia, gli altri furono o esiliati, senza regolare processo, o arrestati ed uccisi.

III.

L’eredità di martirio, lasciata da Tiberio, fu raccolta dal fratello Caio.‍[55]

Tribuno al 123, propose due leggi: 1) che, se il popolo avesse tolto di carica qualche magistrato, costui non avrebbe potuto aspirare ad alcun pubblico onore; 2) che, se un magistrato avesse colpito un cittadino senza il giudizio di legge, il popolo sarebbe stato in diritto di giudicare il magistrato medesimo.

L’una andava a colpire coloro che in avvenire si sarebbero comportati al pari di Ottavio, il deposto da Tiberio; l’altra, gli esecutori passati e futuri dei s. c. u.ª. [20] Le due leggi furono seguite dalla ripresentazione della scorsa legge agraria, la di cui applicazione era caduta in non cale, tanto più che da cinque anni il senato avea tolto al triumvirato esecutivo l’indispensabile potere giudiziario.

Ma Caio non si limitò a quest’opera, pressochè impersonale, e andò via via colmando le lacune e ricorreggendo la legge in quei punti, che richiedevano i nuovi bisogni.

Tiberio aveva mirato solo al rialzamento dei contadini, trascurando il proletariato industriale. Si trattava nella sua legge di assegnare dei latifondi ed era naturale che i preferiti fossero dei contadini.

Non avea toccato inoltre la questione delle terre demaniali date in locazione, quali l’esteso ager campanus, nè consigliata la fondazione di nuovi comuni (coloniae), là, dove le assegnazioni avrebbero avuto luogo.

Caio concepì un sistema di colonizzazione in Italia e all’estero.

Al 123, pel suo collega Rubrio, proponeva la fondazione della colonia di Cartagine; e, al 122 riesciva a fare approvare quella di due colonie a Capua e a Taranto, composte di cives romani e di socii italici, rivestiti della cittadinanza romana.

Erano le prime colonie sprovviste di intendimenti militari e strategici, che il governo romano permetteva; ed era la prima volta che si adibiva alle assegnazioni coloniali anche l’ager publicus in locazione. L’estensione poi della concessione agl’Italici sanzionava il loro dritto in maniera indiscutibile, come non era avvenuto per la legge agraria di Tiberio; e costituiva un precedente per una riforma politica, colla quale Caio sperava di guadagnare nuove forze alla democrazia.

[21]

Infatti, alla fine dello stesso anno, propose la cittadinanza romana pei socii italici, e la latina per gli Italici. Mentre il senato avea stabilito il dominio dei nobiles romani a scapito dei proletari, dei federati italici e dei soggetti nella penisola e fuori, non concedendo a tutti uguale possibilità di conquiste politiche ed economiche, Caio tentava di agitare contro la classe dominatrice tutte queste sfruttate energie dello stato romano.

Alla legge agraria seguì una frumentaria, per la quale lo stato si sarebbe dovuto obligare a fornire il frumento ai proletari della capitale a 6 e 1⁄3 di asse (seni et trientes) per ogni moggio. A conti fatti, con questa legge l’erario veniva a rimetterci più della metà del valore del frumento; e ciò dava la misura esatta delle strettezze, a cui il governo avea ridotto lo stato.

Queste riforme economico-sociali C. Gracco volle consolidare con delle altre d’indole politica.

Tra queste rientrava la succitata, concernente i socii italici, di cui abbiamo discorso.

Propose ed ottenne l’abbreviazione del decenne servizio militare, il divieto d’arrolamento dei cittadini inferiori ai diciassette anni, e l’indennizzo, da parte dello stato, delle spese pel vestiario, prima detratte dal soldo.

Sin da Servio Tullio, la votazione nelle centurie si faceva gerarchicamente per classi, fatto, che, da per se solo, bastava a dar vittoria ai nobili. Più tardi, dalla prima delle medesime, si era scelta la così detta praerogativa, una centuria, chiamata a votare prima delle altre, la cui voce, essendo ritenuta un divino presagio, avea un valore decisivo‍[56].

[22]

Caio propose che tale sistema di votazione fosse abolito, e, fra le cinque classi, fossero tratte a sorte, tanto la praerogativa, quanto le altre centurie, sinchè si fosse avuta la maggioranza‍[57].

La più importante tra le sue riforme non economiche riguardava però l’amministrazione della giustizia.

Una sua legge sulla pena di morte vietava le sentenze capitali contro i cives romani, salvo in caso d’alto tradimento, e imponeva l’obbligatoria ratificazione dei comizi.

Un’altra avea per obbietto la costituzione istessa dei tribunali penali pei reati di azione pubblica. Essi erano composti unicamente di senatori, tutti grossi proprietari, senza partecipazione alcuna dell’altra frazione della classe, economicamente e politicamente dominante, i cavalieri, ricchi capitalisti dediti alle speculazioni.

Una legge Claudia del 225 avea vietato alla nobiltà senatoria l’esercizio del commercio, avendo così acuito quella rivalità fra i due ordini, che già preesisteva per un antagonismo d’interessi economici.

I cavalieri infatti impiegavano i loro capitali in appalti d’ogni genere, che ricevevano dallo stato, specie nelle province. Ma qui appunto essi entravano in conflitto coi governatori, che non erano se non componenti dell’ordine senatorio, specie a proposito della riscossione dei tributi, e venivano giudicati nei tribunali della capitale, tutti in mano dei senatori, e quindi favorevoli ad una delle due parti litiganti.

Caio, intanto, era stato incaricato della fondazione della colonia cartaginese.

[23]

Quando egli ritornò, era console L. Opimio, un secondo P. Nasica, il quale, non solo avea annullato parecchie delle leggi Sempronie, ma inquisiva sfavorevolmente sull’operato di Caio in Africa.

Un giorno di votazione, una tragica baruffa, provocata da uno dei ministri del console, diede ai senatori l’occasione sospirata di usare della violenza e votare il s. c. u., con cui si conferivano pieni poteri ad Opimio‍[58] (121).

La dimane Caio Gracco era cadavere. Le case di molti dei suoi seguaci, periti nella mischia, furono distrutte‍[59], i beni messi all’asta, interdetto il lutto alle loro mogli. Il Tevere fu visto galleggiare di ben 3000 cadaveri‍[60], e, dei superstiti, gli arrestati, per ordine di Opimio, vennero tratti in carcere e strangolati‍[61].

IV.

Il terzo s. c. u. fu votato a proposito dei tumulti suscitati dal tribuno Saturnino e dal pretore Glaucia.

Benchè le fonti contemporanee siano destituite di ogni senso storico, e ci manchi perfino il racconto di Livio, si deve ritenere che, se i nuovi difensori dei populares ereditarono la tradizione politica dei Gracchi, non così può dirsi della loro onestà morale.

L. Apuleio Saturnino, poco prima del 100‍[62], avea [24] corso il rischio di essere espulso dal Senato; il che l’indusse ad aspirare per la seconda volta al tribunato, cogliendo l’occasione che il pretore Glaucia avrebbe presieduto i comizi.

Riescì, per contro, Q. Nunnio, suo avversario politico. Ma Glaucia e Saturnino lo tolsero via di mezzo, e, la dimane, all’alba, prima che il popolo s’adunasse, i loro partigiani elessero quest’ultimo tribuno. Era la seconda volta ch’egli copriva tale carica‍[63]; e da un canto la corruzione e l’inettezza della classe dominante, palesatesi nella guerra Giugurtina e nei numerosi processi intentatile dai democratici, dall’altro, le numerose e gravi ribellioni di schiavi in Sicilia ed altrove, tanto più pericolose, in quanto ognuna di esse reclutava i suoi militi tra i malcontenti d’ogni classe e d’ogni partito, (carattere tipico, come vedremo, della congiura di Catilina), avevano imposto sempre più alla coscienza dei ben pensanti la necessità delle riforme sociali e politiche propugnate dai Gracchi.

Benchè cronologicamente distinte, è bene considerare complessivamente le leggi apuleie, sia perchè questo del secondo tribunato fu l’anno della maggiore attività di Saturnino, sia perchè egli vi ripetè e rifuse le sue anteriori proposte, in maniera da renderne malagevole ogni tentativo di distinzione‍[64].

Esse vanno a costituire una lex frumentaria e una coloniaria.

[25]

La prima scemava il prezzo del frumento, che ogni cittadino potea ricevere dallo stato, da 6 e 1⁄3 di asse, tariffa stabilita dalla lex sempronia a 5⁄6 di asse (semisses et trientes) per moggio. La seconda proponeva che coloro, i quali avevano combattuto sotto Mario, venissero spediti come coloni in Africa con 100 iugeri di terreno per ciascuno.

Quest’ultima aveva uno scopo più strettamente politico. Mario, nel suo primo consolato (107), per fornirsi di numerosi soldati, che gli sarebbero occorsi nelle guerre di Numidia e di Gallia, aveva ridotto a 4000 assi il minimum necessario pel servizio militare, e, più tardi, vi aveva ammesso tutti i nulla tenenti (capitecensi), comprendendovi i socii italici,‍[65] e promettendo bottino e assegnazioni demaniali. Adesso si trattava di soddisfare agli impegni.

Va però da sè come, nè la riforma mariana, nè tali conseguenze erano state suscitate unicamente o principalmente dalle ambizioni dei riformatori.

Le condizioni storiche ed economico-sociali di Roma ne aveano determinato la politica verso un certo indirizzo, e codesta politica avea reagito sulle prime, sì da imporre a Mario le riforme che avea introdotto.

Ad alcune proposte concernenti l’Africa, Saturnino ne aggiungeva un’altra di assegnazione dell’ager Gallicus, di recente conquistato da Mario, non ancora provincia romana, a coloni romani e italici. Se questo non fosse bastato, imponeva che il governo si obligasse ad acquistare le proprietà principali, private e limitrofe.

Caratteristica di queste leggi è: 1) il non aver di mira le possessiones dell’ager publicus, occupate da privati, [26] come era stato nelle sempronie, ma il demanio provinciale ancora indiviso; 2) il concedervisi indistintamente il dritto d’iscrizione ai socii italici, cosa del resto naturale, in quanto costoro figuravano tra i veterani‍[66].

Quasi ad abbassare l’autorità del Senato, Saturnino avea aggiunto la clausola, — anch’essa da votarsi —, che, se il popolo avesse accettato le sue proposte, i senatori, entro cinque giorni, avrebbero dovuto giurare di sottostarvi, pena la destituzione ed una multa di venti talenti.

Il proletariato urbano era avverso; ma, non ostante le reciproche violenze, le leggi furono approvate per l’accorrere dei soldati mariani, tra cui abbondava la popolazione rurale.

Allo scadere dell’anno Saturnino veniva creato tribuno per la terza volta, avendo a collega un sedicente figlio di T. Gracco.

Al tempo stesso, Glaucia e Memmio si presentavano avversi candidati al consolato, a cui il primo non avea dritto di concorrere, non essendo ancora scorso il biennale intervallo di legge dalla sua carica di pretore.

More solito, Memmio fu tolto di mezzo. La popolazione urbana insorse.

Glaucia e Saturnino si ritirarono sul Campidoglio. Il Senato allora, su proposta di Emilio Scauro, princeps senatus, votò un s. c. u.,‍[67] con il quale s’incaricavano i consoli C. Mario e L. Valerio di salvare la libertà [27] e le leggi, e si concedeva loro di scegliersi ausiliari tra i pretori e i tribuni (luglio 100)‍[68]. Questi, all’infuori di Glaucia e Saturnino, furono tutti invitati, e tutti risposero all’appello‍[69]. Mario armò il popolo‍[70]. Ai nobili e alla popolazione urbana si aggiunsero i cavalieri, e la sedizione fu spenta nel sangue. Le case di Saturnino furono demolite‍[71].

V.‍[72]

Un nuovo s. c. u. pare si venga ad avere all’83 contro Silla medesimo, di ritorno allora dall’Oriente. [28] Si tratta adesso di un s. c. u., che il partito radicale riesce a strappare da un senato pauroso di nuove guerre civili contro un ottimate a capo di un esercito e reduce da una spedizione militare‍[73].

Erano consoli Caio Norbano e Lucio Scipione,‍[74] l’uno e l’altro fautori di Mario, i quali, all’annunzio del ritorno del più implacabile dei loro nemici, ottennero dal Senato il conferimento dei pieni poteri‍[75], (primavera 83).

Insieme con Cn. Carbone, già console l’anno precedente, marciano in corpi separati contro Silla. L’esercito di Scipione passa, armi e bagaglio, al nemico. Carbone, allora, si affretta verso Roma e fa dal Senato dichiarare hostes publici Silla e i suoi aderenti‍[76], il che è principio di una serie di operazioni militari, che terminano per riescire sfavorevoli ai consoli (inverno 82).

VI.

Gravi dubbi ci assalgono pel s. c. u. votato, secondo il Willems‍[77], nel 77.

Silla era appena estinto, e già si attentava a rovesciarne la restaurata oligarchia.

Il console M. Lepido‍[78] era l’uomo, a cui metteva [29] capo l’opposizione. Partito per l’Etruria ad apparecchiare eserciti in pro dell’insurrezione, al Senato che gl’intimava di tornare senza indugio a Roma, rispondeva imponendo: 1) che i tribuni, per cui Silla avea prescritto una multa, caso mai abusassero del dritto d’intercessione, insieme col permesso del senato, ogni qualvolta volessero conferire col popolo, e ai quali egli stesso avea vietato di aspirare a cariche superiori, venissero restituiti nell’antica autorità; 2) che gli illegalmente esiliati fossero richiamati e ripristinati nel possesso dei loro diritti civili e dei loro beni; 3) che a lui fosse concessa la rielezione al consolato.

Era già scorso l’anno di carica dei consoli, e L. Filippo, in Senato, propose che all’interrex Appio Claudio, (la sedizione di Lepido non avea permesso le elezioni consolari), al proconsole Q. Catulo e a tutti i magistrati rivestiti di imperium fosse affidata la salvezza della republica‍[79]. (77)

Ci rimane però ignoto se la proposta di Filippo sia stata accettata. Certo si è che il comando delle operazioni militari non fu affidato agli indicati dal medesimo, ma al proconsole Catulo e al privato Cn. Pompeo‍[80].

Battuto presso Roma. Lepido fu dal Senato dichiarato nemico della patria, e costretto‍[81] a rifugiarsi in Sardegna.

VII.

Ma il s. c. u. più noto è quello votato per la congiura di Catilina, diretto a reprimere, non già le mene [30] di tribuni sediziosi o di generali a capo di eserciti, ma un colpo di mano di semplici privati.

Cicerone non vide nei Catilinari che una serqua di debitori dissoluti ed insolvibili, una ciurma di ribaldi incendiari e (meraviglioso a dirsi da lui, che tremava al solo nome di Catilina!) un’accozzaglia di vili e di effeminati‍[82]. Ma, pur troppo, oltre ai nobili spiantati, i quali, come gli altri che stavano al governo, non potevano ricolmare il patrimonio con gl’introiti dello stato,‍[83] il grosso dei congiurati era costituito da tutti quegli elementi della popolazione romana, di cui il governo non avea voluto tutelare gl’interessi, sacrificandone anzi, il più delle volte, i sostenitori, dai proletari urbani senza tetto, senza pane e senza libertà‍[84], da tutti i rovinati dalle usure‍[85] e dalla corruzione dei magistrati‍[86], dal proletariato agricolo senza possedimenti e senza [31] lavoro,‍[87] dai proscritti e dai figli dei proscritti di tutte le guerre intestine, destituiti di patrimonio e di dritti civili,‍[88] da tutti gli avversari politici dell’oligarchia dominante‍[89]. «Noi combattiamo», dirà Catilina, prima di venire all’ultima battaglia, «per la patria, per la libertà, per la vita», i nostri nemici «per la potenza di pochi che li signoreggiano».‍[90]

Al 63 egli si era presentato quale concorrente al consolato, quando, poco prima del giorno dei comizi, Cicerone, allora console, seppe di un’adunanza privata, in cui Catilina avea esposto il proprio programma, e stabilito — si diceva — pel giorno delle elezioni, l’assassinio del console che le avrebbe presiedute.

Il 20 ottobre, Cicerone, convocati i senatori, fa postergare [32] i comizi, e, in una nuova seduta, impone a Catilina di scolparsi.

Questi si comportò fieramente; e, con una metafora, nella quale volle accennare agli ottimati ed al popolo, rispose che due corpi esistevano nella republica, uno debole dalla testa mal sana, l’altro saldo, ma senza capo‍[91], che, lui vivo, più non ne sarebbe mancato! Fu tosto votato un s. c. u., che affidava ai due consoli, Cicerone ed Antonio, la salvezza della republica. (ottobre 63).‍[92]

[33]

Il 27 ottobre‍[93] Catilina aveva spedito C. Manlio in Toscana, e metteva alla rivolta Capua, la Puglia e la Marca Anconitana.

Il senato quindi invia quattro generali sui luoghi minacciati, promette ricompense agli schiavi delatori, ricompense ed immunità ai liberi, che avessero defezionato dall’esercito dei rivoltosi, e rimanda i gladiatori a Capua e nelle fortezze, istituendo in Roma una guardia civica comandata dai magistrati minori, forse dietro un’ordinanza di tumultus[94].

Dopo il 7 o l’8 di ottobre (data della Iª Catilinaria), il senato costringeva Catilina ad uscire da Roma‍[95].

Poco dopo, in una coi suoi, lo dichiarava nemico della patria‍[96], e delegava il collega di Cicerone, Antonio, a muovere contro i ribelli, ingiungendo a Cicerone di rimanere a custodia della città‍[97].

Frattanto, questi riesciva ad avere in mano i capi dei congiurati: senatori, pretori, antichi nobili romani, lasciati da Catilina in città — si narrava — con ordini feroci.

Sfuggendo a qualsiasi risoluzione personale, egli convocò il senato, il quale assistette all’interrogatorio di tutti i presunti colpevoli, ascoltò le delazioni e le denunzie, e ordinò che gli arrestati fossero trattenuti e [34] che il pretore Lentulo, uno dei medesimi, deponesse la carica‍[98]. La loro sorte fu decisa in una prossima tornata. Colpiti da sentenza capitale, essi caddero strozzati dai tresviri capitales, sotto la sorveglianza del console.‍[99]

L’anno appresso, Catilina coi suoi periva combattendo contro l’esercito di Antonio,‍[100] mentre, in Roma, i nuovi consoli (Silano e Murena) proseguivano le loro inchieste sui sospetti di collusione coi ribelli.‍[101]

VIII.

La repressione lasciò come sempre, uno strascico di odî.‍[102] Il senato, previggente, avea per ciò stabilito che, chiunque avesse osato citare alcuno in giudizio per la condanna dei Catilinari, lo si sarebbe considerato quale nemico e traditore.

Il tribuno Metello Nepote, che accusava appunto il senato di avere condannato a morte dei cittadini senza la suprema decisione dei comizi, fu costretto a tacere.

Più tardi tornò alla carica, proponendo il richiamo di Pompeo, che guerreggiava allora in Oriente e fidando nel di lui zelo per la causa popolare; ma fu osteggiato dagli aristocratici e dai suoi stessi colleghi. Ne seguì una zuffa in pieno comizio. Il senato votò immediatamente un s. c. u.[103] (62). Nepote, temendo, riparò presso Pompeo.

[35]

IX.

Era il 52 a. C. Per gl’incessanti tumulti suscitati dalle brighe dei candidati, non si erano potuti tenere i comizi consolari, nè dai consoli dell’anno precedente, nè dai successivi interreges[104].

Milone, un fiero avversario dei democratici, uccide per via Clodio, il nemico implacabile di Cicerone e dell’aristocrazia. Il popolo e i tribuni della plebe gli fanno splendidi funerali, incendiano la curia del senato, minacciano di radere al suolo la casa di Milone, e invadono quella dell’interrex, per costringerlo a tenere immediatamente i comizi, che speravano allora sfavorevoli agli ottimati.

Sopraggiungono le bande miloniane e scacciano gli invasori. Il senato allora vota un s. c. u., per cui affida ai tribuni, all’interrex e al proconsole Pompeo, che aveva ottenuto la proroga quinquennale del governo della Spagna, la difesa della republica‍[105] (30 [36] gennaio)‍[106]. Indi, riconfermatolo in una nuova seduta, tenutasi tra una guardia di soldati, fuori del pomerium, in prossimità dell’esercito pompeiano, invia Pompeo a Roma a far nuove leve‍[107] e gli conferisce il consolato senza collega.

Pompeo però nomina come tale Quinto Scipione, figlio di Nasica, e, per non offendere Cesare, fa a quest’ultimo dai tribuni decretare sin da ora il consolato per il tempo, in cui l’avrebbe legalmente potuto ottenere. Indi propone nuove forme regolatrici dei processi, che avrebbero riguardato i fatti determinanti il s. c. u., inizia i dibattimenti, e chiude l’anno dei suoi poteri straordinari colla votazione di due nuove leggi, alle quali era però accordato un valore permanente.

X.

Scadeva a Cesare il secondo quinquennio del preconsolato‍[108], dopo il quale, secondo il parere del senato, [37] egli avrebbe dovuto deporre la carica ed il comando dell’esercito, mentre, secondo lui, e secondo molti degli ottimati, avrebbe potuto tenere l’una e l’altro sino alle elezioni consolari‍[109].

Così avrebbe evitato un intervallo di vita privata, accessibile ad accuse e a processi, solito sfogo di rappresaglie politiche.

Dopo parecchie violente discussioni in senato e privati reciproci messaggi, Cesare, da Ravenna, dove, reduce dalle Gallie, si trovava ad invigilare le vicende della capitale, inviò al senato un ultimatum, dichiarandosi, checchè facesse Pompeo, allora luogotenente delle Spagne, pronto a congedare otto e persino nove delle sue legioni, purchè il senato gli concedesse il comando della Gallia Cisalpina e dell’Illirico fino alle prossime elezioni consolari.‍[110]

Era un tornare alle solite. La questione giuridica celava infatti una più grave questione politica.

[38]

Cesare aveva esordito sposando una figlia di Cinna, e, dopo essersi rifiutato ad obbedire agli ordini del dittatore Silla, che gl’imponeva il divorzio, avea, contro il volere del medesimo, mantenuto la carica sacerdotale conferitagli da Mario.

Poco prima della congiura catilinaria, egli era stato la mente ispiratrice di quell’abile disegno di legge agraria presentato da P. Servilio Rullo, che, a giudizio del Mommsen, «doveva preparare alla democrazia una posizione eguale a quella fatta a Pompeo dalle proposte gabino-manilie».‍[111] Della congiura di Catilina egli era stato senza dubbio simpatizzante, ed egli solo avea sostenuto, a viso aperto, la difesa degli imputati, come, dopo la loro condanna, avea osteggiato fieramente Cicerone. Console al 59, egli aveva ripresentato la legge agraria di Rullo‍[112] e l’anno appresso un plebiscito, che gli avea concesso per un quinquennio la luogotenenza della Gallia Cisalpina, gli avea offerto i mezzi di raccogliere i frutti che si aspettava dal suo consolato, ed incarnare finalmente l’ideale suo e del partito: l’impero della democrazia per mezzo delle proprie legioni di generale.

I suoi successi nelle Gallie non avevano servito che a rinfocolare tale speranza. Adesso era venuto il momento di tirare le somme, ed era questa la catastrofe che il senato tentava di scongiurare, ritogliendo a Cesare le legioni.

Quanto a Pompeo, il quale non aveva mai seriamente appoggiato il partito radicale, e ne aveva ricevuta alleanza solo perchè talvolta si era schierato contro [39] quello senatorio, avea, poco a poco, girato la propria posizione, e ciò che più ve l’aveva determinato, erano state le vittorie di Cesare in Gallia e la sua misera contesa con Clodio in Roma.

Il convegno di Lucca del 56 avea per un momento eliminato i palesi rancori, ma, al 52, Pompeo, creato in realtà dittatore, oltre a perseguitare giudiziariamente alcuni degli antichi partigiani di Cesare ed emanare una nuova legge de ambitu, nella quale era agevole intravedere un pericoloso attacco personale contro il proconsole delle Gallie, lo aveva trascurato nella scelta del collega, e — fatto ancora più grave — egli si era riconfermata per altri cinque anni la luogotenenza della Spagna. Quando poi la questione giuridica era stata posta all’ordine del giorno del Senato, la coalizione di Pompeo con il partito aristocratico era già un fatto compiuto.

L’ultimatum di Cesare, come del resto le sue anteriori proposte, accolte con entusiasmo dal popolo, a cui erano state notificate dai tribuni Curione ed Antonio, trovò vivissima opposizione da parte dei consoli e del senato, che lo respinse a grande maggioranza, e votò invece la proposta di Scipione, suocero di Pompeo, colla quale si minacciava a Cesare la qualifica di traditore e nemico pubblico, qualora, entro un dato termine, non avesse deposto la carica e l’esercito‍[113].

Al s. c. fu opposta l’intercessio dei tribuni. Il senato allora decreta il lutto pubblico‍[114], e si riconvoca per decidere sul divieto tribunizio.

Nuova intercessio e nuove proteste. L’assemblea, scioltasi fra il tumulto, viene riconvocata la sera da Pompeo, [40] che eccita i senatori a rifiutare ogni partito più temperato. I tribuni, vista inutile la loro opera, anzi pericolosa la loro permanenza in Roma, tanto più che il console ve li costringeva, riparano presso Cesare, ed il 7 gennaio veniva votato un s. c. u., col quale si affidava ai consoli, pretori, tribuni e proconsoli, residenti in città, la difesa della repubblica.‍[115]

Pochi giorni dopo, il senato si recava da Pompeo fuori del pomerium, e, dopo aver proclamato tumultus,‍[116] iniziava i preparativi per la guerra: 1) leve in tutta Italia, sì da raccogliere 130 mila soldati; 2) arrolamento di mercenari da nazioni estere; 3) concessione del denaro pubblico a Pompeo; 4) tasse municipali d’armi e di danaro, e, se questo non bastasse, contribuzione privata; 5) espoliazioni degli arredi dei tempî; 6) conferimento a privati di due province pretorie e due consolari.

Senza nemmeno riconfermare loro l’imperium con una deliberazione popolare‍[117], si dà principio alla guerra.

XI.

Mentre Cesare in Oriente si apparecchiava all’ultima battaglia contro Pompeo, in Roma il pretore Celio Rufo, un democratico e cesariano, promulgava nuove leggi in pro dei debitori.

«Il cronico male della necessità di contrarre debiti, scrive l’Ihne, si era acuito col deprezzamento delle proprietà, determinato a sua volta dal timore di [41] devastazioni militari e dal ristagnamento degli affari. Un gran numero di ragguardevoli e minuti debitori della specie dei Catilinari sperava in una universale estinzione dei debiti».

«Poichè molti si affrettavano a nascondere in luogo sicuro quanto possedevano, il denaro era sparito dal commercio. Non esisteva più fiducia», «e i proprietari si trovavano nell’impossibilità di vendere o ipotecare le case o i latifondi allo scopo di riscattare gli eventuali loro debiti».‍[118] La guerra permanente avea generato i suoi effetti naturali, e Cesare stesso, sentendo la necessità di nuove leggi sui debiti, prima della guerra civile, avea ordinato l’estimo di tutte le possessioni mobili ed immobili, che dovevano, in proporzione del loro valore, passare in mano dei creditori. Al punto, in cui gli eventi erano precipitati, la proposta riesciva di una discutibile praticità, ma, quel ch’è peggio, essa probabilmente non ebbe corso.

Molto più radicale invece voleva essere l’opera del pretore Celio Rufo. Egli in una legge che presentò ai comizi centuriati, propose una dilazione di sei anni senza decorso d’interessi, e a questa ne fece seguire due altre, l’una condonante ai pigionali il saldo del fitto d’alloggio arretrato, l’altra promulgante l’estinzione generale dei debiti‍[119].

Il senato allora, dietro relazione del console, vota un s. c. u. (48).‍[120] Il console, incaricato dell’esecuzione, [42] sospende Celio e lo sostituisce con un altro pretore, lo caccia dal senato, lo strappa dalla tribuna, mentre quegli si doleva del trattamento inflittogli, e ne spezza pubblicamente la sedia curule.

Celio temette che ne fosse per seguire qualche grave punizione. Tentò di evadere dalla città, ma la sorveglianza del console ne lo impedì. Si presentò a lui, chiedendo di recarsi presso Cesare. Gli fu accordato con l’obbligo di farsi scortare da un tribuno e col diritto di uscire, portando seco le insegne di pretore. Per via, presso Capua, si rifiutò di obbedire alla sua scorta, che gl’imponeva di proseguire il viaggio. Tentò muovere un’insurrezione negli Abruzzi, dove perì ucciso dalle milizie del console.

XII.

L’agitazione suscitata da Celio Rufo fu ripresa immediatamente dal tribuno P. Cornelio Dolabella‍[121]. Era l’anno 47, e, nell’assenza di Cesare dall’Italia, rimanendo il governo di Roma nelle mani di Antonio, il suo magister equitum, Dolabella ripropose le leggi di Rufo. Il senato, sentendosi, per varie ragioni, nell’impossibilità di opporvisi, volle tentare una dilazione, e vietò che si proponessero delle innovazioni sino al ritorno di Cesare, mentre Antonio sospendeva la concessione del porto d’armi entro l’ambito del pomerium.

Ambedue le misure riescirono vane, e il senato ricorse al s. c. u., affidando la difesa della capitale ai tribuni del popolo e al magister equitum,‍[122] con la raccomandazione [43] di tenere l’esercito consegnato in città. Il nuovo espediente non fruttò più degli antichi. Allora Antonio, che avea precedentemente favorito Dolabella, gli suscita contro il di lui collega ed avversario Trebellio. Il senato torna ad affidargli la difesa della republica.

Ma neanco questa volta si venne a capo di nulla. Bisognò attendere il ritorno di Cesare, che placò poscia definitivamente le contese mediante un’amnistia generale.

XIII.

Agli idi di marzo del 44, Cesare moriva assassinato in seguito alla nota congiura degli optimates.‍[123]

Ma costoro, i quali illudevano che tale violenza fosse sufficiente a svegliare nel popolo, insieme con l’antico amore verso le istituzioni, nuovo sdegno contro il morto dittatore, che le avea in gran parte violate, dovettero restare ben attoniti al bieco silenzio, da cui furono circondati, quando, poco dopo l’eccidio, si diedero a percorrere le strade di Roma coi pugnali stillanti sangue nella destra.

Tale episodio, che più tardi diede agio a Cicerone di declamare non so che sentenze sui fatali effetti della corruzione dei popoli, bastò a suscitare nuove speranze tra le file degli scorati cesariani.

L’autorità dell’estinto era stata singolare.

Cogliendo occasione dalla gravità delle circostanze [44] sociali e politiche, sospinto in gran parte dai suoi sogni ambiziosi, egli aveva assommato in sè quasi tutti i poteri dello stato.

L’esempio era pericoloso, e, non poteva non prevedersi che voglie analoghe sarebbero, alla sua morte, risuscitate in uomini di analogo temperamento. Infatti, non mancarono i candidati alla eredità del dominio: da un lato M. Antonio, il più favorito degli amici del dittatore, il sostenitore della sua politica interna, il compagno delle sue imprese estere; dall’altro il diletto figlio adottivo, l’erede universale delle proprie sostanze, C. Cesare Ottaviano. La lotta combattuta con criteri eminentemente politici fra Cesare e Pompeo risuscitava tra le file di uno dei due partiti, degenerando in un conflitto di miseri interessi personali.

Antonio, pel primo, in virtù di una «lex de actis Caesaris confirmandis», pubblica le postume leges iuliae, fra cui ne interpola altre di fattura propria, scaltra macchina di guerra per ischiacciare gli antichi nemici, assicurarsi nuovi amici, e legare più saldamente ai propri gl’interessi di quei partiti, che tanto avevano sostenuto il suo predecessore.

Una scorsa al contenuto delle più importanti fra le medesime non può non rendercene avvisati.

A base di tutto stava una legge agraria e una coloniaria (de colonis in agros deducendis), ambedue aventi lo scopo di favorire i veterani dell’esercito, sia col distribuire gli scarsi avanzi delle terre demaniali italiche, sia col rendere tali nuove possessiones ancora in potere di privati.

Di eguale importanza era una legge giudiziaria, colla quale si stabiliva che nei tribunali penali alle due [45] decurie dei senatori e dei cavalieri fosse aggiunta altra dei centurioni‍[124], e ciò allo scopo di far guadagnare agli ufficiali dell’esercito una notevole influenza nello stato.

Una nuova legge de vi conferiva ai presunti rei per attentati alla sicurezza della republica e per lesa maestà l’appello ai comizi centuriati, e stabiliva, in luogo della morte, come massimo di pena, l’esilio e la confisca di metà degli averi.

Per isbarazzarsi di Lepido, foriero di probabili ostacoli, al quale avea promesso il pontificato, Antonio ripigliò la legge, per la quale Cesare avea deferito al popolo la scelta del titolare a codesta suprema magistratura; ed il popolo, interpetre dei di lui desideri, rimandò Lepido ad altri uffici.

Come si vede, siamo ancora nel programma democratico dei tempi andati, rincarato di una leggera tinta militarista, che vi avea introdotta Cesare, e, prima di lui, Pompeo, il quale, a sua volta, l’aveva ereditato da Silla e da Mario.

Ma se questa era l’opera di Antonio, poco meno abile ci appare quella di Ottaviano, il quale, non potendo gareggiare nel campo legislativo, dove già altri l’aveva con tanta fortuna preceduto, risponde con un atto d’abnegazione, soddisfacendo, colla vendita dei beni mobili ed immobili di sua proprietà, al legato di Cesare, che lasciava trecento sesterzi per testa ai 150000 cittadini, che ricevevano grano dallo stato.

Della sorte dei due uomini, forse allora egualmente favoriti dai populares e dall’esercito, rimaneva arbitro [46] il partito conservatore, il quale metteva capo al suo leader intellettuale, M. Tullio Cicerone. La vittoria sarebbe toccata a chi avesse saputo guadagnarselo.

Coerente al proprio passato ed a quello del suo partito, Cicerone scelse come primo bersaglio quello dei due uomini che più gli appariva temibile, e attaccò subito Antonio per la succitata legge de vi e per l’altra iudiciaria[125]. In pari tempo Ottaviano, pur fermo a garantire con la sua persona e col suo passato prossimo e remoto le proprie simpatie politiche, capiva che contro Antonio bisognava a sua volta servirsi di Cicerone.

Questi, il 20 dicembre, con la terza Filippica induceva il senato a confermare la Gallia Cisalpina a quel Decimo Bruto, che era stato uno dei congiurati, di cui approvava le leve fatte contro Antonio; e, al tempo stesso, faceva decretare dal senato onori e rendimento di grazie ad Ottaviano e alle legioni disertate da Antonio.

Uguale, se non migliore resultato, egli otteneva con la 5ª Filippica (1 gennaio 43), colla quale avea proposto che Bruto fosse dichiarato benemerito della patria, e fatto stabilire che si erigesse ad Ottaviano una statua; che gli s’accordasse la dignità senatoria e il diritto di chiedere le altre magistrature dieci anni prima dell’età prescritta, lo si rimborsasse delle spese patite per l’arrolamento delle soldatesche al servizio della republica e si esentassero quelli tra i suoi soldati, già disertori di Antonio, da ulteriore servizio militare, promettendo inoltre una prossima spartizione di terre demaniali.

La questione, su cui l’oratore e il senato non si trovarono pienamente d’accordo, fu quella dell’invio di un’ambasceria [47] ad Antonio. Una decisione definitiva non si potè avere che con un notevole ritardo. In essa fu stabilito d’intimare ad Antonio: 1) che lasciasse le legioni e la Gallia Cisalpina, in cambio della quale avrebbe ricevuto la Macedonia; 2) che levasse subito l’assedio a Decimo Bruto, che già s’era chiuso a Modena; 3) che, entro un termine prescritto, ripassasse con l’esercito al di qua del Rubicone.‍[126]

Quanto ai suoi soldati, essi erano obligati a tornare in patria sotto minaccia di essere dichiarati hostes publici.‍[127]

Le risposte di Antonio non furono meno recise. Egli prometteva: 1) di ritirarsi dalla Gallia togata, non già dalla chiomata; 2) di licenziare l’esercito, salvo sei legioni, sino al giorno, in cui Cassio e M. Bruto avessero, in qualità di consoli o di proconsoli, occupato le loro province; 3) chiedeva che il senato accordasse ai suoi soldati i medesimi onori, che erano stati accordati a quelli di Ottaviano, e, oltre a riconoscere la già avvenuta distribuzione dei territori campano e leontino, assegnasse loro nuovo bottino e terre demaniali.

Chiedeva altresì: 1) che fossero mantenute le leggi sue e dei colleghi fondate sui chirografi e i comentari di Cesare; 2) che fosse concessa immunità ai settemviri‍[128] pei loro atti trascorsi; 3) che infine non si facesse inchiesta sui tesori del tempio di Opi, dove, secondo i suoi avversari, si celava uno sperpero di ben sette milioni di sesterzi.

[48]

Ma nè Ottaviano, nè il senato potevano annuire a tali contro-proposte. Ogni tentativo di conciliazione era esaurito; non rimaneva che intimare la guerra, e così fu fatto.

Venne immediatamente votato un s. c. u., pel quale si raccomandava ai consoli Irzio e Pausa e al propretore‍[129] Ottaviano la difesa della republica (gennaio 43).‍[130] Il s. c. u. era stato preceduto da un altro di tumultus[131]. Tutto il popolo romano prese le armi. Per ricolmare l’esausto erario ogni cittadino contribuì 1⁄25 dei propri beni, ciascun senatore pagò quattro oboli per ogni tegola delle case possedute in città, mentre universali contribuzioni d’armi e di forniture militari sopperivano all’urgenza della circostanza.

I voti di Cicerone potevano dirsi esauditi, se non fosse stato il cattivo esito dei suoi tentativi per far dichiarare Antonio nemico dello stato. Contro di lui prevalse, oltre alle ripetute intercessioni tribunizie,‍[132] l’eloquenza del suocero di Cesare, L. Calpurnio Pisone; [49] e tale gioia non gli fu concessa, se non dopo la totale disfatta di Antonio in Gallia e il suo raccozzamento con Lepido‍[133]. La dichiarazione d’hostis publicus fu allora, come sempre, accompagnata dalla confisca dei beni‍[134].

XIV.

La disfatta di Antonio‍[135] fece accorgere il senato di avere ecceduto nell’esaltare quell’Ottaviano, che non lasciava di essere figlio di Cesare e democratico per giunta, rappresentante cioè di quelle tendenze monarchico-militari, che avevano condotto a morte il padre suo. Perciò come si era servito dell’erede di Cesare contro Antonio, così esso tentò di servirsi contro quest’ultimo del molto più schietto conservatore e republicano D. Bruto. Per tali ragioni decretò, ma solo a costui, sacrifizi e trionfo; a lui solo affidò la continuazione della guerra ed il comando delle legioni, (dei due consoli, uno era morto, l’altro moribondo), mentre ne onorava i soldati coi premi e con gli elogi promessi a quelli di Ottaviano, i soli che si fossero realmente battuti.

Contro al nuovo nemico intanto stavano armati i più noti conservatori del tempo: Sesto Pompeo con la flotta, M. Bruto colle legioni di Macedonia e C. Crasso in Siria con l’incarico di guerreggiare Dolabella, reo di avere ucciso Trebonio, uno dei congiurati contro Cesare. Come [50] se ciò non bastasse, il senato cercava di insinuare la discordia fra Ottaviano e il suo esercito. Il buon senso e la fedeltà di quest’ultimo fece fallire il colpo, mentre d’altro canto Ottaviano si decideva ad entrare in trattative con Antonio.

L’antico luogotenente di G. Cesare si era il 29 maggio congiunto con M. Emilio Lepido,‍[136] uno dei più noti seguaci del morto dittatore; e la notizia era stata accolta con tale terrore dal consiglio senatorio da indurlo, temendo di peggio, a riaffidare ad Ottaviano la ripresa delle ostilità. Questi rispose che il suo esercito avea giurato di non muovere contro legioni, che, come quelle di Lepido e di Antonio, fossero appartenute a Giulio Cesare. Quattrocento dei suoi soldati si recano anzi dal senato, chiedendo per sè le ricompense promesse e non ricevute, pel loro duce il consolato, e l’amnistia per le legioni di Antonio. Avuto un diniego a tutte le loro richieste, tornano ad Ottaviano, e questi non tarda a marciare su Roma. Il senato allora, dopo avere invano tentato di conciliarselo insieme all’esercito con onori e con l’esaudimento di tutte le precedenti richieste, decretato tumultus,‍[137] vota un s. c. u.,‍[138] affidando ai pretori la difesa della republica, e facendo occupare il Gianicolo e il Tevere dalle milizie, che esso potè avere a sua disposizione (29 maggio-19 agosto 43).‍[139].

[51]

XV.

Ottaviano‍[140] avea elevato ai primi onori Salvidieno Rufo. Ma, per ignote ragioni, al 40, il suo protettore medesimo lo accusò in pieno senato di cospirazione contro la propria persona e contro il popolo romano. I triumviri (Antonio, Lepido e Ottaviano) vennero incaricati della difesa della repubblica.‍[141] (40)

Furono ordinate delle pubbliche preghiere. Rufo fu condannato alla pena capitale, e finì, non si sa bene, se suicida o sgozzato.‍[142]

XVI.

Non si può segnare alcun s. c. u. posteriore alla fine [52] della republica. Uno, di cui il Mommsen‍[143] à creduto ci sia fonte Dione, è originato da una falsa lezione del testo del medesimo‍[144].

[53]

CAPITOLO III.‍[145] Il senatus-consultum-ultimum.

I.

Il nome, con cui i moderni hanno designato l’eccezionale misura senatoria, è sconosciuto alla classicità. Nè può darsi diversamente, poichè esso s’è formato e fissato dagli epiteti, con cui qualcuno degli antichi l’à qualificato. Livio l’avea detto «utimae semper necessitatis»; Cesare «extremum atque ultimum s. c.,» e i moderni l’hanno denominato l’«estremo s. c.»: il senatus consultum-ultimum.

Il s. c. u. è votato nell’occasione di una guerra esterna, di un’agitazione politica interna, di un’insurrezione armata di qualche generale al di fuori della città, di una congiura, di una grave e pericolosa violazione delle leggi esistenti da parte di un magistrato civile, di una sedizione, etc.

Esso quindi, con le operazioni che inizia, colpisce nemici esteri ed interni, privati e magistrati civili o militari.

Essendo un s. c., soggiaceva a tutte le modalità del medesimo. Veniva inscritto e incorporato (perscriptum) [54] insieme con gli altri,‍[146] depositato nell’aerarium Saturni[147], trascritto in un giornale officiale etc.

Se non che, pur essendo differente da quel genere di s. c.ª i quali, perchè votati in seguito a plebisciti, che delegano al senato la decisione su date materie, non ammettevano intercessione di magistrati o di tribuni,‍[148] esso la esclude a priori.

Benchè di ciò non abbiamo attestazione teorica alcuna, nè lo potremmo, perchè non esiste legge, che autorizzi al s. c. u., ciò non pertanto, possiamo dire di possederne la sicurezza più indiscutibile. Lo comprova:

1. La costante assenza d’intercessio, persino in casi, nei quali i minacciati erano, per esempio, i tribuni insieme con gl’interessi dei rappresentati dai medesimi.

2. Il carattere, come vedremo, esecutorio, non già semplicemente consultivo del medesimo.

3. Il dritto, che il senato s’arrogava o conferiva agli incaricati di sospendere i magistrati sediziosi, nel cui novero sarebbero certo entrati gli intercessori.

4. La sospensione di guarentige, ancora più importanti, quali la lex de provocatione.

E mentre negli ultimi secoli della repubblica, che sono anche i più frequenti di s. c. u.ª, il semplice s. c. non diveniva esecutorio, se non dopo depositato nell’erario‍[149], il s. c. u. si considerava tale sin dall’istante della sua votazione.

Siffatta misura non moveva sempre dai rapporti ufficiali [55] del potere esecutivo sulla situazione interna od estera dello stato.

Il più delle volte ci sfugge la persona, sulla cui domanda è stata indetta l’assemblea senatoria, e, quando si pensa che questa spesso votò dei s. c. u.ª, malgrado il sentimento dei magistrati, allora investiti dell’ius agendi cum patribus, i quali avrebbero avuto interesse di evitarne la decisione col non convocarla, non è ardito supporre che codeste sedute si siano tenute dietro iniziativa di qualche gruppo di senatori, forse dei principes senatus, i quali, ogni qualvolta si tratta di votazioni di senatus-consulta ultima, figurano tra le prime file dei combattenti.‍[150]

Tanto meno ci apparisce probabile che la convocazione sia stata indetta dai capi del potere esecutivo, in quanto che, non essendo le sedute senatorie regolate da un ordine del giorno qualsiasi, riesciva agevolissimo da ogni questione particolare sollevare, quando si fosse voluto, la domanda di votazione della temuta misura eccezionale.

Se, in tali casi, negli stati contemporanei, il potere esecutivo evita scrupolosamente la convocazione delle assemblee legislative, le quali, alla peggio, possono infliggergli un voto di biasimo, quanto più grave tale convocazione non doveva riescire nello stato romano, dove non solo l’onore, ma la vita del partito e degli amici politici dei magistrati convocatori potevano per un simile atto correre il più grave dei pericoli!

Mai però, è bene notarlo, la proposta partì direttamente da un magistrato o da persona estranea al senato.

[56]

Occorrendo votare il s. c. u. in momenti di pericolo, il senato poteva far ciò anche in ore estranee a quelle consentite dall’uso,‍[151] per esempio di notte, facendosi spesso custodire da una guardia ordinata all’uopo dal console,‍[152] nè curava che la sede dell’adunanza fosse, come di regola, un tempio.‍[153]

La sua formola ci viene riferita variamente («Videant» o «dent operam consules etc. ne quid respublica detrimenti capiat», «ut consules etc. armis rempublicam tuerentur»; «ut consules etc. libertatem legesque manu defenderent», «ut cons. adhiberent operamque darent», «ut imperium populi romani maiestasque conservaretur», «ut cons. rempublicam defenderent»‍[154] etc.), salvochè tutte queste formole, toltane la prima, non sono che rifacimenti o riferimenti sommari della genuina, e di ciò ce ne assicura a più riprese Dione.‍[155]

Il s. c. u. affida la difesa della repubblica a dei magistrati forniti d’imperium, ordinari e straordinari, quali il magister equitum[156] e i tresviri reipublicae constituendae, e, talvolta, con essi ai tribuni.‍[157]

[57]

Essi vi sono nominati in ordine gerarchico: consoli, pretori, tribuni etc. Se i consoli sono assenti,‍[158] si comincia dai pretori.

In mancanza dei consoli e dei pretori, vi si sostituisce l’interrex. Possono aggiungervisi i proconsoli e i propretori.

Alle volte, il senato, anzichè incaricare altri magistrati, oltre ai consoli, concede a questi la facoltà di aggregarsene.‍[159] Nel caso però che il s. c. u. sia diretto contro dei magistrati, i colpiti si ritengono esclusi dall’appello, che si fa al loro ordine.

Il senato può, insieme con l’incombenza della repressione, conferire ai magistrati una nuova carica, che essi, salvo il caso di un’ordinanza di institium, geriscono insieme con le loro specifiche attribuzioni dei tempi normali. E se si tratta di magistrature collegiali, può anche lasciare ai medesimi la scelta del collega. Così avvenne al 52, quando Pompeo nominò console Q. Scipione‍[160].

Se i magistrati, o il principale tra essi, è assente da Roma nel giorno della votazione, o, se la sicurezza della città lo richiede, il senato può testimoniargli la costanza dei propri propositi e dei propri desideri, riconfermandone l’incarico in una posteriore seduta, alla quale egli abbia agio di partecipare.

Possono i magistrati rifiutarsi di assumere l’incarico [58] loro affidato, come lo possono rispetto al semplice s. c.?‍[161]

È una questione, che ci è impossibile non lasciare insoluta, giacchè l’unico fatto, che possa risolverla, è il rifiuto del console Muzio Scevola al s. c. u., votato contro Tiberio Gracco, della cui realtà storica non possiamo però vantare una sicurezza superiore ad ogni dubbio.‍[162] Mario, piuttosto che venire a tale estremo, preferì sacrificare i suoi amici politici.‍[163] Se non che, il tentato s. c. u. contro Tiberio sta a provarci come un rifiuto del potere esecutivo non costituiva un ostacolo alla esecuzione dei decreti del senato, i quali perciò dimostrano di possedere quel valore esecutivo, che caratterizza la nostra misura. Può anzi dirsi che tutti i magistrati, sin dal giorno della votazione, vengano a stipulare il patto della loro servitù col consiglio senatorio.

Questo moltiplica le sue sedute, le trasporta, in prossimità della residenza dei generali, a cui à affidata la difesa della republica, vi si fa custodire da picchetti armati, diramando ordini perentori e inoppugnabili. Cosicchè tutti gli atti, successivi al s. c. u., procedono e dai magistrati incaricati e dal senato, in maniera che le attribuzioni degli uni vengono a confondersi promiscuamente con quelle dell’altro.

Quest’ultimo avoca a sè tutti i poteri dello stato, e, se non legifera, sospende le più salde guarentige della costituzione, e governa come in base a delle leggi, che non formula, ma che esegue.

Tanta onnipotenza scema nel caso che l’incombenza [59] della difesa sia trasmessa a un generale. Allora questo, in realtà, s’impone al senato, e occupa nella direzione del governo un posto superiore ai magistrati civili.

Nè seguono conflitti di preminenza.

La sommissione a lui, che detiene la forza armata, si opera quasi consenzientemente.

II.

Le misure da usare differiscono a seconda dei casi. Ne esistono però di comuni. Votato il s. c. u., coloro, contro i quali tacitamente esso era diretto, possono, se cittadini, venire dichiarati hostes publici, con o senza riserva di riabilitazione, dietro resipiscenza entro un dato termine,‍[164] o minacciati di tale dichiarazione, se non avessero voluto sottomettersi agli ordini del senato‍[165].

Tale qualifica importava la messa al bando di tutte le garenzie dei cittadini insieme con la necessità di una persecuzione militare‍[166].

Mi sono espresso in maniera da mostrare che io non ritengo codesta misura inevitabilmente connessa al s. c. u., come fa il Willems‍[167], e ciò perchè noi conosciamo dei s. c. u.ª, pei quali i presunti colpevoli non furono punto dichiarati hostes publici, e delle dichiarazioni di [60] hostes publici senza precedente, (spesso senza conseguente), s. c. u.

Non lo fu infatti C. Gracco, non Metello Nepote, non gli avversari di Milone, non Celio Rufo, non Ottaviano. Il s. c. u. non è votato perchè vi siano degli hostes publici, ma esservi degli hostes publici ne è uno dei casi che lo motivano. Al 43, votatosi il s. c. u. contro Antonio, Cicerone si scalmanò invano fino alla XIVª Filippica perchè costui fosse, insieme coll’esercito, dichiarato hostis publicus.

Per contro, all’88, furono dichiarati hostes publici, senza preventivo o successivo s. c. u., Sulpicio e Mario insieme con altri dieci cittadini, Antonio dopo la sua prima campagna contro Bruto ed Ottaviano, quando ogni misura eccezionale era scaduta, Lepido prima della seconda guerra, che il senato affidava ad Ottaviano contro Antonio, senza farvi nemmeno precedere un s. c. u.[168]. Spesso, sotto l’impero del s. c. u., si colpiscono colla dichiarazione di hostes publici persone imputate di torti estranei a quelli, che aveano motivato la misura precedente. Tale fu il caso di P. Cornelio Dolabella al 43‍[169].

D’altro canto, dopo la dichiarazione di hostes publici insieme con persone perseguitate secondo lo spirito di detta dichiarazione, noi ne troviamo delle altre, per cui i suoi effetti si estinguono, direi così, lapsu memoriae[170], ed altre, per cui ciò si ottiene solo previa una legge centuriata, introdotta da un s. c.[171].

[61]

Oltre alle dichiarazioni d’hostes publici, il senato poteva far decretare dai capi del potere esecutivo l’armamento generale della cittadinanza, il così detto tumultus (= ταραχὴ [Dio — XXVII, 31; XLI, 3; XL VI, 29]).

Il tumultus, nei primi secoli della repubblica, veniva ordinato o dal dittatore o dai magistrati ordinari, dietro un semplice s. c.[172]. Nè questa consuetudine andò in disuso, come crede il Willems‍[173]. Ordinanze di tumultus, senza precedenti s. c. u.ª, ne furono votate, tra le altre, durante la guerra sociale‍[174], durante le ostilità del 43 fra Ottaviano ed Antonio‍[175], al 63 per la congiura di Catilina‍[176]. Esse precedono o seguono il s. c. u., senza regola prestabilita, e, se di consueto, coincidono con tali decisioni senatorie, ciò avviene perchè anch’esse segnano il sovrastare di un pericolo imminente.

Dopo il decreto, tutti i cittadini, indistintamente, anzichè al disarmo, sono costretti a indossare il costume militare, il sagum, e a pigliare le armi: i consoli, o chi per essi, ne dispensano nel foro‍[177], e gli arrolati sono inscritti a seconda che vengono a dare il nome. Dopo l’iscrizione, invece di prestare il giuramento personale (sacramentum), giurano in massa (coniuratio).‍[178]

Si costituisce una guardia civica permanente, le cui [62] pattuglie, sparse per la città, sono comandate dai magistrati minori.

Il giuramento però non legava gl’inscritti che pel momento del pericolo: erano volontari, che tornavano a casa senza bisogno di congedo‍[179].

L’arrolamento poteva, anzichè da un magistrato, essere indetto da un privato, ed allora, invece del tumultus, si avea l’evocatio[180].

Il decreto di tumultus poteva, come era avvenuto in altri tempi, accompagnarsi con quello di iustitium, che, colla sospensione d’ogni affare pubblico e privato‍[181], avea lo scopo di facilitare l’arrolamento. Ma questa seconda misura, forse per difetto delle fonti, non v’è caso di s. c. u., nel quale ci si presenti.

Se sovrasta il pericolo di una guerra estera, o v’è grave sedizione dell’esercito di un generale, deliberato a muovere contro Roma, il senato può, anzichè tumultus, [63] decretare che c’è vero e proprio bellum[182], senza che questa differenza abbia più di un valore morale.

Da ultimo, il senato può vestire le gramaglie o decretare lutto pubblico‍[183].

Tutte queste misure particolari scadono contemporaneamente rispetto a se medesime e rispetto alla principale‍[184].

III.

A questi provvedimenti d’ordine generale ne seguono degli speciali, a seconda dei casi.

Se si tratta di una guerra estera, i magistrati incaricati ànno anzi tutto il dovere di affrontare in persona il nemico, ed accorrere in aiuto degli eserciti pericolanti.‍[185] Ma, se ragioni più gravi impongono la loro presenza in Roma, possono e debbono immediatamente surrogare a se medesimi i migliori generali, anche se pel momento questi siano semplici privati‍[186], conferendo loro l’imperium, senza intervento dei comizi, per recarsi al campo appena sia loro concesso.

[64]

Non diversamente occorre che i magistrati si comportino nel caso d’insurrezione dell’esercito di un generale romano. Indicono leve e arrolamento di mercenarii; il senato designa i generali, servendosi all’uopo di semplici privati, di pretori in funzione di governatori o di proconsoli, di ritorno in Roma e rivestiti quindi dell’imperium finchè non avessero varcato il pomerium[187]; ripartisce loro i vari comandi militari‍[188], conferendo spesso ai proconsoli un imperium, estendentesi a più provinciae e superiore a quello dei governatori ordinari‍[189]; preannunzia ed impone tasse private o municipali d’armi e di denaro, espolia, occorrendo, i tesori dei templi‍[190]; mette l’erario a disposizione dei bisogni della guerra, e, se la città è in pericolo, trasmette direttamente le sue disposizioni ai soldati residenti in essa, ed a quegli altri che è possibile procurare‍[191].

Più inusitate e complesse erano le misure, che sarebbero occorse per un’agitazione interna (sedizione, insubordinazione di magistrati, congiura, agitazione elettorale).

Nel primo e nell’ultimo caso, dopo il s. c. u., il senato era deliberato a farla finita con la violenza.

I magistrati incaricati potevano in tal guisa contare sull’aiuto dei senatori come corpo armato‍[192], a cui s’aggiungeva spesso l’ordine equestre‍[193], senza che ciò [65] li impedisse dall’emanare altresì un proclama, nel quale s’invitavano a seguirli i cittadini, che avessero voluto salva la republica‍[194].

Se il tempo non stringeva, potevano regolarmente indirsi nuove leve‍[195].

Sui capi dei ribelli veniva posta una taglia‍[196]. Quest’esercito improvvisato moveva contro i sediziosi insieme con le milizie, di cui disponeva il console. Se tra questi erano dei magistrati, potevano venire uccisi, coperti o no delle insegne della carica‍[197]. A strage compiuta, si poteva vietare la sepoltura dei morti, interdire il lutto alle mogli, privare i congiunti dei beni, dei dritti civili, e spesso della vita‍[198]. I loro uccisori ricevevano le promesse ricompense, e, se schiavi, il beneficio dell’affrancamento‍[199]. Dei vivi, gli arrestati potevano impunemente venire trucidati in prigione o sottoposti a ulteriore processo.

Passiamo quindi a studiare le modalità del giudizio, che in ispecial modo suscitano la curiosità di noi moderni.

IV.

Disgraziatamente non ebbero luogo che due soli processi, quello del 381 contro M. Manlio Capitolino e l’altro del 52 contro Clodiani e Miloniani, dei quali il primo, per l’età in cui seguì, il secondo, per le circostanze [66] eccezionali, entro cui venne regolamentato, non possono ritenersi come tipo dei processi possibili sotto l’impero del s. c. u.

Al 381 il giudizio fu, come in tempi normali, portato direttamente dinnanzi alle centurie.

Livio confonde, o meglio non distingue quale parte vi abbiano avuto i tribuni plebis e i tribuni militares consulari potestate[200]. Noi però, fondandoci sulla pratica dei tempi ordinari, possiamo ritenere, che mentre i primi adunarono l’assemblea, furono i secondi a sostenervi l’accusa.

Questa fu di alto tradimento (regni crimen). Stante la gravità eccezionale della situazione, si fece quindi a meno della quaestio, ma fu rispettato l’ius provocationis. Manlio potè produrre testimoni a difesa, esporre le spoglie dei nemici vinti in guerra e le onorificenze riportate, recitare la sua autodifesa. Se non che i patrizi (siamo ancora nel cuore della lotta patrizio-plebea), prevedendo favorevole all’imputato l’esito della causa, «prodicta die»‍[201], tradussero, come vedemmo, l’accusato dinnanzi all’assemblea delle curie.

Le modalità del nuovo processo, che, per la sua novità ci avrebbe interessato molto più del primo, rimangono completamente oscure. A condanna pronunziata, Manlio fu dai tribuni, (non si sa se dai militares c. p. o dai plebei), precipitato dalla rupe Tarpea.

La sentenza implicò la demolizione delle case di Manlio‍[202], la confisca dei beni, la distruzione delle effigie e la cancellazione del suo nome, dovunque esso [67] apparisse, insieme col divieto ai patrizi di abitare sul Campidoglio, ove già Manlio aveva abitato‍[203].

Al 52, l’incaricato della repressione era un generale, i cui sentimenti, non assolutamente benevoli verso il consesso e il partito, che gli avea conferito i poteri straordinari, erano allora poco noti. Egli‍[204] pensò dapprima a rivolgersi contro coloro, i quali, dopo essere stati causa dei tumulti, aveano poi voluto la repressione contro quegli altri, che ne erano rimasti vittime, e fece dal senato qualificare i fatti accaduti, (uccisione di Clodio, incendio della Curia, assalto alla casa dell’interrex), come reati «contra rempublicam», attentati cioè alla sicurezza dello stato.

Ascritto tale valore politico agli atti commessi, in una legge «de vi», che fece ratificare dal popolo, Pompeo stabilì che il tribunale giudicante e la forma del processo riescissero, nelle seguenti particolarità, diversi dagli altri ordinari e coesistenti pei medesimi reati: 1) il presidente dovea venire eletto nei comizi, ed essere un uomo consolare; 2) la scelta dei giudici dovea toccare al plenipotenziario che, in numero di 360, li avrebbe tratti dai tre ordini di cives, cui spettavano i giudizi (senatori, cavalieri, tribuni aerarii); 3) la procedura [68] del giudizio dovea essere più sbrigativa della ordinaria; 4) le testimonianze e le prove doveano precedere le accuse e le difese, ed esaurirsi entro quattro giorni; 5) l’ultimo, il quinto, dovea riserbarsi al dibattimento e alla sentenza; 6) le orazioni d’accusa non doveano oltrepassare le due ore, tre quelle di difesa; 7) dovea limitarsi il numero degli oratori, e vietarsi le testimonianze generiche delle laudationes; 8) pena conforme al titolo del reato dovea essere l’esilio perpetuo e la confisca dei beni; 9) doveva infine, alle cause, contemplate dalla legge, esser concessa la precedenza sulle altre pendenti‍[205].

Il processo contro Milone, per l’uccisione di Clodio, il più importante, si svolse nel foro, il quale, a richiesta della difesa, fu, sin dal secondo giorno, custodito dalle milizie di Pompeo.

Milone era stato colpito da quattro accuse: due de vi, giusta la nuova legge di Pompeo e la legge Plauzia, una de ambitu e una de sodaliciis. Fu citato contemporaneamente pel primo e pel secondo giudizio. Fattosi rappresentare da un amico, ottenne per quest’ultimo una proroga, mentre egli stesso si era recato al primo tribunale de vi.

Vi sostenevano l’accusa due nipoti del morto. Giusta le nuove disposizioni, le testimonianze precessero il dibattimento. Assisteva ogni giorno solo una parte dei giudici, che autenticavano con la loro firma le deposizioni, già raccolte per iscritto, ed i verbali delle sedute. L’ultimo giorno l’invito fu generale. Stavano apparecchiate tre urne corrispondenti ai tre ordini di giudici, [69] e 360 schede, portanti i nomi dei medesimi, fra cui se ne estrassero 81.

Dopo il dibattito oratorio, si diede lettura del verbale di tutto il processo. Indi seguì la reiectio, cioè a dire lo scarto di 15 giudici per ciascuna delle parti, 5 per ogni ordine.

Ridotti così a 51, dopo avere giurato, segnarono ognuno il proprio voto su apposite tavolette, indicando con la lettera C la condanna, con A l’assoluzione.

Queste medesime norme eccezionali furono seguite nella procedura e nella costituzione dei tribunali per gli altri processi de vi, salvo quanto alla nomina del presidente, che Pompeo avea riserbato per sè, come del pari per gli altri de sodaliciis e de ambitu, da giudicarsi però rispettivamente colle ordinarie leggi Licinia[206], Plautia e Lutatia[207], Baebia, Calpurnia, Tullia, e Aufidia[208].

La nuova legge pompeiana, che stabiliva le nuove modalità pei processi de ambitu, presentava altresì un valore retroattivo sino a diciotto anni. Tutti poi codesti tribunali eccezionali, conforme alla pratica ordinaria, e in opposizione, come vedremo, a quella del senato eretto ad alta corte di giustizia, emanarono sentenze contumaciali.

V.

Se si tratta di una congiura, la cosa corre un po’ diversamente.

[70]

Dopo avere diramato i loro confidenti, imposto la fuga ai capi dei sediziosi, consenziente il senato, munito di presidii la città, fatto promettere dallo stesso senato pene e premi ai delatori e ai disertori, comunicate quotidianamente al medesimo, e talvolta anche al popolo, le proprie informazioni‍[209], sventata la trama, i magistrati, investiti dei pieni poteri, convocano, quale alta corte di giustizia, il consiglio senatorio‍[210].

Chi lo presiede è il più elevato tra i medesimi, colui che à ricevuto le denunzie e le confidenze‍[211], seguito gl’indizi del complotto, ordinato perquisizioni‍[212], ed eseguito arresti per mezzo dei pretori‍[213].

Egli comincia col riferire gli ultimi resultati di questa sua opera di giudice istruttore e di capo del potere esecutivo. Presenziano la seduta i magistrati in carica, e, se ce n’è, i designati. Si viene quindi all’interrogatorio degli imputati e all’esame dei documenti e delle sole testimonianze a carico‍[214].

Quelle imputate di falso, (caso eccezionalissimo),‍[215] [71] importano l’incarcerazione immediata da prolungarsi sino a nuove ricerche o alla confessione della colpa; le altre, le ricompense, già in antecedenza bandite, che vengono dispensate in pieno senato.

Se fra i presunti rei vi sono dei magistrati, il senato può destituirli, costringendoli a deporre i dritti e le insegne della carica e decretarne l’affidamento in custodia ai più noti del partito che à votato il s. c. u.[216], mentre, in onore degli incaricati, benemeriti della repressione, il senato può decretare un voto di plauso e supplicazioni agli Dei‍[217].

Dietro incarico del presidente, alcuni tra i senatori redigono un quotidiano verbale‍[218].

Esauriti tali preliminari, egli chiede al senato quale titolo di reato creda di riscontrare negli atti, che s’addebitano agli imputati. In genere, è facile prevederlo, si decideva di trattarsi di delitti contra rempublicam. Nella stessa, o in una prossima seduta si veniva quindi alla sentenza finale.

Il presidente, seguendo l’ordine di prammatica, cominciava dall’interrogare il magistrato in designazione più elevato, discendendo gerarchicamente ai senatori‍[219]. La pena poteva variare dalla morte alla reclusione a vita, compresa la confisca e la interdizione dei pubblici uffici‍[220]. Quando la discussione era esaurita, il presidente stesso pigliava la parola per dichiarare a quale delle opinioni si rimetteva, e per quali ragioni, o ne [72] svolgeva una sua propria. Era ammessa la replica e la modificazione delle proprie proposte.

Indi si veniva al voto. Se la pena approvata era la capitale, il console o i pretori s’incaricavano della traduzione degli arrestati nel carcere Mamertino, e quindi nel locus, che di poi si disse tullianum, riserbato alle esecuzioni. Queste, col solito mezzo dello strozzamento, venivano eseguite dai tresviri capitales. L’appello al popolo era negato‍[221].

Il senato, in questa sua opera giudiziaria, nè avea competenza su reati estranei a quelli, per cui il s. c. u. si era votato, nè emise mai sentenze contumaciali. Catilina stesso, il quale andò immune da ogni condanna, era già da L. Emilio Paolo stato accusato de vi[222], ma il consesso senatorio non si arrogò mai il dritto di giudicarlo per tale colpa, di cui del resto non si occuparono i tribunali ordinari. Il che ci dà altresì agio a notare come, in simili momenti eccezionalissimi, il reato minore potea essere trascurato, stante la necessità di prevenire gli effetti di uno maggiore‍[223].

VI.

Se si tratta di magistrati ribelli alla legge nell’esercizio delle loro funzioni, gl’incaricati del ristabilimento [73] dell’ordine, purchè gerarchicamente superiori, ànno il diritto di sospenderli dalle loro funzioni, sostituirli con qualcuno dei loro colleghi, espellerli dal senato, vietar loro di difendersi in pubblico, sorvegliarli in previdenza di mene sediziose e impedirne l’uscita dalla città. Una punizione più grave non era d’obligo. Se il magistrato sospeso avesse voluto uscire dal pomerium, si sarebbe dovuto assoggettare alla scorta, impostagli dai magistrati plenipotenziari.

E, se in tali condizioni si fosse ribellato alla medesima, i magistrati superiori incaricati aveano il dritto di spedire delle milizie per trattarlo come nemico sino ad ucciderlo.

VII.

Abbiamo considerato gli effetti del s. c. u., rispetto al senato ed ai magistrati.

Esaminiamoli adesso, rispetto ai tribuni del popolo e ai comizi.

In realtà i tribuni, oltre al dritto di veto, perdono tutti gli altri, che loro competono in tempi ordinari, e, quando non figurano come bersaglio delle decisioni del senato, tacciono o si prestano, servili istrumenti dei magistrati incaricati. Si contano quattro eccezioni. Al 52, in pieno senato, essi poterono vittoriosamente intercedere contro una modificazione proposta da Ortensio alla legge de vi di Pompeo, che non riuscì di lieve [74] importanza‍[224]; al 49‍[225] e al 43‍[226] intercessero contro un s. c. o una proposta di dichiarazione d’h. p.; e, al 63, durante la discussione in senato intorno alla pena da infliggere ai Catilinari, Cesare invocò sebbene inutilmente, l’intercessio tribunizia contro la proposta di confiscare i beni degli imputati‍[227]. Ma questi casi ci stanno piuttosto a provare che, se l’intercessio alla votazione del s. c. u. è impossibile, che, se in fatto ed in genere il dritto tribunicio del veto è sospeso, non così accade rispetto a qualcuno di quei provvedimenti, che si considerano come effetti contingenti della misura eccezionale‍[228].

[75]

Nè di più possiamo affermare rispetto ai comizi. Al 52 ebbero luogo quelli legislativi, ma furono sospesi gli elettorali.

Al 63, accadde l’opposto‍[229]. Possiamo però ritenere che, trattandosi, come vedremo, di una misura contraria agli interessi dei populares, si preferisce imporre il silenzio alle assemblee politiche dei medesimi.

Finalmente, le nuove leggi, votate in codesti periodi straordinari, possono essere fornite di un carattere permanente, e proposte non solo dai magistrati incaricati, ma eziandio da quegli altri, che a costoro sia talentato di scegliersi quali colleghi‍[230].

VIII.

Alla repressione segue — e può anche precedere — la fuga dei colpiti. I magistrati però, e non solo gl’incaricati, ma anche i loro successori, hanno il dritto di iniziare delle istruttorie supplementari‍[231] contro i sospetti di collusione coi ribelli, e condannarli, anche se [76] contumaci. In tale caso, l’incombenza è affidata più specialmente ai pretori, mentre il senato detiene le segrete liste di proscrizione, di cui ordina, se crede, la pubblicazione‍[232], e vota dei s. c.ª preventivi contro i possibili futuri procedimenti dei partigiani dei colpiti all’indirizzo dei repressori‍[233].

Nessuna legge stabilisce la cessazione o la durata degli effetti del s. c. u. Essa deve quindi variare a seconda della durata del pericolo. Noi non abbiamo agio di precisarla per ogni singola occasione, e dobbiamo essere paghi delle notizie, che possiamo rintracciare per qualche singolo caso.

Il s. c. u. contro Silla dell’83 dovette durare dalla primavera dell’anno medesimo sino alla fine della guerra, che ne seguì, all’inverno cioè dell’82; quello per Catilina, dall’ottobre del 63 al gennaio del 62‍[234]; quello del 52, dalla fine del gennaio alla regolare entrata in carica dei nuovi consoli; quello del 49, dal gennaio all’aprile dell’anno seguente‍[235]; quello contro Antonio, dal gennaio alla fine dell’aprile del 43‍[236].

[77]

Un tempio alla Concordia chiudeva spesso la strage fraterna‍[237].

IX.

Vogliamo adesso, dopo l’esame particolareggiato di tutta la serie degli atti, che dipendono e si ricollegano al s. c. u., ricavarne i tratti caratteristici, confrontandolo con l’altra misura eccezionale della vita politica odierna: lo stato d’assedio.

Una differenza notevole risiede nella loro origine.

Il nostro stato d’assedio è proclamato dal potere esecutivo, il s. c. u. è imposto al medesimo da un potere consultivo.

Ma la differenza essenziale, che tocca lo spirito della misura, risiede nel fatto che il nostro stato d’assedio importa necessariamente uno stato di guerra e l’intrusione del potere militare nella vita civile e politica del popolo, mentre, al s. c. u., tale intervento non era punto necessario, e vi si poteva notare solo quando vi si fosse aggiunta un’ordinanza di tumultus.

Ma, anche in tale caso particolare, le due misure si differenziano per due nuovi caratteri, procedenti a loro volta dalle diverse condizioni politiche dei nostri stati rispetto al romano.

Mentre l’odierno stato d’assedio impone al tempo stesso il disarmo ai cittadini e un atteggiamento di guerra all’esercito permanente, raramente impegnato in imprese estere, l’ordinanza di tumultus, la quale cadeva tra un popolo, le cui legioni avevano il compito costante di fronteggiare il nemico, chiamava alle armi i [78] cittadini non militari, e si serviva dell’esercito permanente solo nel caso di un’insurrezione armata di generali.

Così essendo, la condizione che il s. c. u., accompagnato dal tumultus, veniva a creare in Roma, assai più che quella imposta dai nostri stati di assedio, richiama l’altra, che le sommosse popolari creano nella moderna Inghilterra. Come in Roma, senza far entrare in ballo l’esercito, l’aristocrazia e la borghesia inglese si recano in tali casi alla sezione di polizia a prestare giuramento e ad armarsi per muovere contro i rivoltosi, non abbandonando i policemen all’isolazione e al disprezzo della folla, che da noi termina col considerarli come i peggiori nemici dei propri diritti, mentre le classi sociali in lotta, i conculcati e i conculcatori, si scontrano, fronte a fronte a difendere i propri interessi, senza che sia creato uno squilibrio artificiale di forze tutto a danno di una delle medesime.

Per contro, del pari che nei nostri stati, nessuna legge prevedeva in Roma l’eccezionale misura; anzi si era, da questo lato, meno liberali od ipocriti, che dir si voglia, non chiedendosi nè prima, nè dopo, ratificazione dal potere legislativo.

Come ai giorni nostri si sospendono le assemblee legislative, le sole che potrebbero agitarsi contro l’applicazione della misura, come quelle che possono in certo modo accogliere rappresentanti di interessi affatto opposti a quegli altri, in omaggio dei quali la misura è stata applicata, così, in Roma, il senato, col vincolare alla tutela della patria i capi del potere esecutivo, e questi, a lor volta, con l’imporre il silenzio ai tribuni, investiti dell’ius agendi cum populo, aggiornavano [79] indefinitamente i comizi elettorali e legislativi e strozzavano la voce dei populares.

Un disordine peggiore imperava nella procedura criminale, non regolata dalle norme ordinarie, nè da straordinarie, sì da potersi avere pressochè altrettanti tipi di processi per ogni s. c. u.

A tale condizione di cose, più che a liberalità alcuna, deve, secondo me, ascriversi quel carattere, che noi abbiamo notato nei medesimi, la limitazione della procedura straordinaria ai fatti, che aveano provocato il s. c. u. Il che però non valse, neanco allora, ad evitare la conseguente illogica applicazione di pene ad atti precedentemente non incriminati.

Di autorizzazioni a procedere contro i magistrati non ne occorrevano, stante le norme del dritto pubblico, che stabiliva per essi una procedura identica a quella pei privati‍[238], ma, e qui fu il torto, non se ne richiesero nemmeno contro gli inviolabili tribuni‍[239]. Le modalità infine della purgazione delle sentenze contumaciali rimasero, come per noi, sino a poco tempo addietro, questione completamente trascurata.

Ma, se, per questo rispetto, i Romani concepivano il compito loro peggio di quello che non facciamo noi moderni, non così accadeva quanto all’indirizzo, che il s. c. u. veniva ad imporre alla politica contemporanea.

Con scrupolo costante, i Romani, dal fatto delle sommosse e delle transitorie agitazioni, distinsero recisamente la questione dell’inviolabilità delle loro libertà elementari.

[80]

Un solo s. c. u., il più liberale, quello del 52, vide, sotto il suo impero, la votazione di due leggi, che gli avrebbero dovuto sopravvivere, ma non si trattava se non di norme innocentissime, l’una vietante le candidature, poste durante l’assenza del candidato, l’altra, infrangente l’onnipotenza della censura‍[240].

Non scioglimento d’associazioni sovversive, come se ne erano viste in tempi normali‍[241], non strascico di leggi eccezionali, non prossimi e duraturi provvedimenti restrittivi.

[81]

CAPITOLO IV. L’incostituzionalità del s. c. u.

I.

Si può dire non essersi data in Roma votazione di s. c. u., a cui non sia seguita una reazione dei partiti democratici, i quali, non che levare platoniche proteste, mirarono a colpire, colla legge alla mano, gli esecutori del medesimo.

La prima accusa di illegalità è anteriore a votazione alcuna. Il console Muzio Scevola, a cui il senato intimava di servirsi dei pieni poteri, che gli avrebbe conferiti contro la vita di Tiberio Gracco e dei seguaci del medesimo, rispose che non avrebbe mai ucciso alcun cittadino, che non fosse stato prima condannato con regolare giudizio‍[242].

Peggio toccò a Popilio, che, nella qualità di console avea dovuto partecipare all’opera dei tribunali eccezionali del 31, il quale fu fatto esiliare da Caio Gracco perchè avea condannato dei cittadini, senza che vi precedesse un regolare giudizio‍[243].

Dopo l’uccisione di Caio, il console Opimio corse il rischio di una sorte eguale. Sostenne l’accusa presso i comizi, ma invano, il tribuno Q. Decio‍[244].

[82]

Seguì la strage di Glaucia e di Saturnino, e, trentasette anni dopo, Caio Rabirio, presunto uccisore di quest’ultimo, fu accusato come reo perduellionis, dal tribuno T. Labieno. Condannato dai duoviri perduellionis, Q. Cesare e C. Cesare, si appellò al popolo; ma, mentre questo stava per ratificare la condanna, il pretore Q. Metello, fece sì che i comizi si sciogliessero e C. Rabirio fosse salvo‍[245].

Suo difensore era stato M. Tullio Cicerone, il quale, l’anno stesso, in qualità di console, ordinava la morte dei Catilinari.

Ed ecco, a repressione finita, i tribuni Metello Nepote e Calpurnio Bestia, insieme con Cesare, designato pretore, il quale, nella discussione in senato, avea messo in rilievo l’incostituzionalità della condanna, inaugurare una tattica ostruzionista, coll’impedire a Cicerone di parlare in pubblico, salvo che per dichiararsi pronto a deporre la carica.

Minacciarono altresì di far richiamare Pompeo dal campo e Cicerone fu ridotto a non potere intervenire in senato, nei comizi o in giudizio alcuno, senza sentirsi risonare alle orecchie l’accusa di assassino di Lentulo e di Catilina‍[246].

Ma il colpo più grave contro il senato e Cicerone fu portato il 58 dalla legge Clodia, la quale puniva con l’esilio il magistrato, che condannasse o avesse condannato a morte un cittadino senza il voto preventivo dei comizi‍[247].

[83]

Il valore retroattivo della medesima veniva a colpire Cicerone, il quale, la notte precedente al giorno fissato per la votazione, abbandonò Roma. Immediatamente dopo, Clodio presentò al popolo e fece approvare la sua lex de exilio Ciceronis[248], per cui questi veniva confinato in perpetuo a quattrocento miglia da Roma, con la minaccia della morte, in caso di trasgressione; e l’esilio, la confisca dei beni e peggio a chi avesse ardito ricoverarlo.

Una clausola vietava l’abrogazione della legge, mentre, come reo perduellionis, Cicerone subiva altresì la confisca dei beni.

Ma, se fino ad ora la legalità delle procedure straordinarie era stata contestata solo dai populares, così non avvenne al 52, quando per bocca di Ortensio, fu formulata l’opinione del senato che i fatti da giudicare lo fossero alla stregua delle leggi esistenti‍[249]; ed i tribuni, partigiani di Milone, ebbero a sostenere, dinnanzi al popolo, che i tribunali eccezionali, proposti da Pompeo, venivano a costituire un privilegium, miravano cioè a colpire un solo cittadino‍[250].

Così arriviamo ai «Comentarii de bello civili» di C. Cesare, nei quali l’A., che aveva notato le violazioni della logica, se non della costituzione, nelle pompeiane leggi eccezionali del 52, tesse una nuova e più grave critica degli atti seguiti al s. c. u. del 49‍[251].

[84]

II.

Tutte queste accuse di illegalità si possono riassumere nelle seguenti:

1. Principale e costante si è quella contro le condanne a morte di cittadini romani prive della concessione dell’appello al popolo‍[252], violazioni, come abbiamo accennato, delle leggi de provocatione e delle Porciae‍[253], nonchè di quella «de capite civium» di C. Gracco, del 123‍[254].

2. Segue l’altra contro le condanne di cittadini, non tradotti in giudizio, «indemnati»‍[255].

3. Terza è quella che ritiene i tribunali straordinari un privilegium, tutto a danno dei presunti colpevoli.

4. Finchè Cesare non ne farà notare una accessoria, quella cioè di permettere il conferimento delle province consolari o pretorie a dei privati‍[256].

Ma tutte le precedenti, benchè, come vedremo, inconfutabili, salvo la terza, la quale non teneva conto del diritto del potere legislativo di istituire tribunali di privilegio, non sono che una parte minima di quelle, a cui dava luogo il s. c. u.

In tutti i suoi effetti, esso segna un costante strappo alla costituzione.

[85]

III.

1. Ogni decisione senatoria non avea per se stessa alcun valore imperativo sui capi del potere esecutivo‍[257]. Or bene, l’abbiamo notato, tutta la serie dei s. c. u.ª sta a provarcele come fornite di tale prerogativa.

2. Ma, se ciò costituiva indubbiamente un’illegalità, essa appariva molto più enorme, quando il senato giungeva fino a permettere che si facesse a meno del potere esecutivo per l’attuazione delle misure, che il s. c. u. portava seco. Così avvenne al 43, quando il senato ardì trasmettere i suoi ordini alle milizie della capitale; così tutte le volte che le sue convocazioni furono promosse ed indette non già dai magistrati investiti dell’ius agendi cum patribus, ma da persone estranee al collegio dei medesimi‍[258].

3. Il s. c. u. escludeva a priori il dritto di intercessio, senza la quale non si potevano dare s. c.ª[259].

4. Come il senato esorbitava dai suoi poteri di consesso consultivo, così facea esorbitare quelli dei magistrati, a cui commetteva la difesa della republica. Questa fu affidata talvolta ai tribuni‍[260], venendosi con ciò ad imporre loro tutti quegli atti, che noi abbiamo passato in rassegna, perfettamente estranei ai poteri dei medesimi‍[261]. Ma, se ciò è spiegabile, se non giustificabile, [86] trattandosi di magistrati, o quasi, di cui è nota la potenza, che vennero via via acquistando negli ultimi anni della republica, riesce un’aperta violazione della legge ogni qualvolta codesto affidamento viene a cadere in persona degli interreges, le cui attribuzioni, dal giorno, in cui i tribuni ottennero l’ius agendi cum patribus insieme col dritto di amministrare lo stato nella vacanza del potere esecutivo, furono limitate alla convocazione dei comizi centuriati consolari‍[262].

4. Tutti i magistrati dell’età republicana erano eletti nei comizi del popolo‍[263] e occupavano magistrature collegiali‍[264].

Or bene, dopo il s. c. u., il senato si arrogava il diritto di conferire esso medesimo dei proconsolati illegali‍[265] o dei consolati non collegiali, lasciando libero il nuovo magistrato di scegliersi o meno un collega. Così avvenne per Pompeo al 52.

5. I magistrati incaricati della difesa della republica potevano esentarsi o esentare dagli effetti delle leggi o disposizioni emanate chi più loro talentasse. Così, al 52, Pompeo, il quale nei processi, avea vietato le laudationes, fu il primo a indirizzarne ai giudici una per Planco, imputato de vi[266]. Non ostante un s. c., che consentiva il proconsolato solo dopo cinque anni dall’esercizio della magistratura, egli accettò subito il [87] governo quinquennale della Spagna; e, contro una sua legge elettorale, promosse un s. c., per cui gli assenti avrebbero potuto domandar cariche, purchè nominalmente e formalmente autorizzati‍[267].

6. Su quali prerogative si fondava il senato per giudicare un cittadino hostis publicus, e poscia muovergli guerra, sia pure dietro le ipocrite apparenze di un decreto di tumultus[268]? Dichiarare un cittadino hostis importava: 1) averlo privato dei suoi dritti di cittadinanza, per i quali, qualunque atto politico egli avesse compiuto, ve ne aveva il dritto, in qualità di comproprietario dello stato, 2) avergli mosso dichiarazione di guerra. Ma ambedue erano diritti peculiari del popolo‍[269], non già del senato.

7. Non potendo questo fare dei cittadini hostes publici, agiva altresì illegalmente, quando negava loro l’ius provocationis[270], o lo concedeva dinnanzi ad assemblee popolari, che non vi avevano competenza alcuna‍[271].

E ciò, (il che era una doppia incostituzionalità), non solo per quelli, che, a dritto o a torto, aveva dichiarato hostes, ma per molti altri, che tali non avea fatto.

8. Nè l’ius provocationis chiudeva la serie delle garanzie cittadine abrogate. Pei colpiti dal s. c. u., si potea fare a meno del giudizio preventivo alla condanna.

9. Ma, se talvolta tutto poteva spiegarsi con l’esistenza di un grave capo d’accusa, non così poteva darsi [88] per la uccisione o la confisca dei beni o la privazione dei dritti civili nella persona dei congiunti dei condannati, solo perchè tali.

10. Illegale era nel maggior numero dei casi l’istituzione dei tribunali eccezionali. Una legge avea creato gli ordinari, e solo una nuova legge poteva sospenderli e accompagnarvene dei nuovi‍[272].

Così è che, se noi possiamo ritenere legali i pompeiani tribunali del 52, istituiti dopo il voto dei comizi, non altrettanto potrà dirsi, ad esempio, di quello per la congiura Catilinaria, costituito dall’intero corpo senatorio e dal console che lo presiedette.

Nè ad esso, nè ai consoli nei secoli, in cui riscontriamo l’uso della nostra misura, spettava competenza alcuna nei processi penali. La pratica straordinaria contraddisse in tutti questi casi alle leggi fondamentali dello Stato.

11. Non meno illegali erano per alcuni cittadini le forme del giudizio dei medesimi, escludendovisi il discarico e la difesa.

12. Il senato decretava il proconsolato a dei privati contro altre disposizioni di leggi esistenti‍[273].

13. Destituiva i magistrati in carica, invadendo al tempo stesso i poteri dei comizi e dei magistrati superiori; dappoichè questi soltanto potevano sospendere gli inferiori‍[274], come toccava solo ai comizi ritogliere i [89] diritti, di cui erano capaci, ai magistrati, che essi avevano eletto‍[275].

Gli aristocratici, che tanto perseguitarono Tiberio Gracco per la deposizione del collega Ottavio, fatta precedere dal voto popolare, avrebbero dovuto essere più scrupolosi sul proprio conto.

14. Ma, appunto per questa sua incompetenza a destituire i magistrati, il senato non isfugge neanche all’accusa di illegalità, per le condanne, che egli infliggeva ai medesimi. Eletti dal popolo, i magistrati ne partecipavano alla maiestas; violarla, era cadere in un reato minutae maiestatis[276].

15. Peggio ancora, quando i colpiti erano dei tribuni, il cui massacro fu, più volte, oltre che dal senato e dai capi del potere esecutivo, compiuto da semplici privati.

Non ostante l’incertezza, attraverso la quale ci è stato tramandato il vero carattere legale dell’inviolabilità tribunicia (sacrosanta potestas), per cui si è dubitato se sia stata realmente sancita dal concorso dei feciali in un patto tra il patriziato e la plebe o da qualche legge centuriata‍[277], troppe volte essa era stata riconosciuta di fatto, e ritenute legali le condanne nei processi che ne seguirono, perchè, all’ultimo momento, le si debba negare ogni dritto, allo scopo di giustificare una misura, che [90] in tutti i suoi atti porta l’impronta della incostituzionalità‍[278].

16. Finalmente, il senato non avea il dritto di sostituirsi ai poteri legislativi ed elettorali dei comizi.

IV.

A queste incostituzionalità principali seguono le accessorie.

1. Nessun s. c. poteva divenire esecutorio, se non dopo il suo deposito all’aerarium Saturni[279]; il s. c. u. invece lo diveniva sin dall’istante della sua votazione.

2. Nella discussione in Senato sulle condanne da applicare, cosa non mai usata, era ammessa la replica‍[280] e concessa la parola persino al magistrato presidente‍[281], il che falsava l’indole del consesso, la cui azione non doveva consistere se non in una serie di semplici ed oggettivi consigli da richiedersi dal relatore.

3. Nessun arrolamento legale poteva darsi senza le norme richieste dal dilectus[282], delle quali faceva a meno il tumultus o l’evocatio.

[91]

V.‍[283]

Quali erano le giustificazioni di tante illegalità?

Se non la più ovvia, certo la più infelice è una calunnia: colpevoli di aspirare alla tirannide,‍[284] i presunti rei possono soggiacere a qualsiasi condanna.

Che cosa i Romani intendessero per aspirazione alla tirannide, non è ben chiaro. Se la violazione delle elementari libertà civili, conferite dalla costituzione, il rimedio adottato dal Senato non se ne rendeva meno colpevole; se il ripristinamento della monarchia, coloro che accusavano o erano degli illusi in buona fede, o mentivano, sapendo di mentire. In ambedue i casi, nessuna legge contro codesto attentato alle istituzioni republicane giustificava quelle tali pene o procedure, di cui dietro il s. c. u., usava o faceva usare il Senato.

Le altre giustificazioni ci vengono a tutt’andare ripetute, [92] specialmente da Cicerone, l’avvocato di ufficio della reazione, dal «Pro Rabirio reo perduellionis» alle Catilinarie, dalle Catilinarie alla Miloniana, dalle orazioni ai libri retorici.

Ma esse, più che serie giustificazioni giuridiche, non sono se non deboli, volgari argomentazioni, incastonate entro una sentimentale difesa del s. c. u., che piglia le mosse dagli effetti immaginari dell’opera degli avversari del senato,‍[285] (criterio, del resto, al quale non iscampa la succennata), e tutte s’infrangono contro la constatazione dell’incostituzionalità di tale misura, che noi abbiamo premesso.

1. Per opera di chiunque, privato, senatore o magistrato, è lecito «sceleratos viri interfici»‍[286];

2. tanto più, se questi siano da lui ritenuti nemici della republica.

Ma in ogni stato, retto, come tale, da leggi costituite, codesta indagazione della scelleratezza dei suoi componenti, come della loro ostilità al medesimo, è sottratta all’arbitrio individuale ed affidata a qualcuno dei suoi poteri dirigenti. E così accadeva in Roma, dove i delinquenti venivano rimandati ai tribunali criminali ordinari, ed i nemici di Roma venivano dichiarati tali nei comizi del popolo. Il che è confermato da Cicerone medesimo, il quale, se, nella discussione sulla pena da applicare ai Catilinari, avea sostenuto la legalità della uccisione dei cittadini romani, dappoichè «qui... reipublicae sit hostis, eum civem nullo modo esse potest»‍[287], [93] sentenzierà nel Pro Sestio «non posse quemquam de civitate tolli sine iudicio, ne iudicari quidem posse nisi comitiis centuriatis»‍[288].

Oltre a ciò, la seconda parte della giustificazione è manchevole, in quanto — l’abbiamo notato — gli autori e gli esecutori del s. c. u. non avevano in ogni caso avuto la precauzione di far precedere ai loro atti codesta, comunque si fosse, qualifica di hostes r. p. addosso ai loro avversari.

3. L’uccisione è maggiormente lecita, continuava Cicerone, qualora gli esecutori vi siano autorizzati dal senato‍[289]: «Senatui parendum de salute reipublicae fuit... utendum igitur consilio senatus»‍[290].

Quest’onnipotenza dell’autorizzazione senatoria era probabilmente una sincera illusione dell’oratore, pervenutagli dalla reale strapotenza di quel consesso e dal suo difetto di precisione nel cogliere ogni idea astratta, che gli impediva di formarsi, pur essendo un causidico, uno scrupoloso senso della legge. Infatti, nel suo «De legibus», improntato all’ordinamento legislativo romano, egli stabiliva che, «quaecunque senatus creverit populusve iussit, tot sunto»‍[291].

Ma ciò accadeva nell’ideale republica ciceroniana. Nella romana — l’abbiamo visto — l’autorizzazione del senato non bastava a legalizzare tutti gli atti, che seguivano al s. c. u.

Così se l’autore del «De domo», o Cicerone stesso [94] che fosse, in un’occasione, nella quale gli tornava comodo, avea fatto dipendere dal senato il giudizio sulla vita delle persone,‍[292] ne era stato rimbeccato dall’A. del «Pro Sestio», secondo cui tale diritto competeva solo ai comizi centuriati‍[293].

4. Sentendo troppo debole l’appello alle leggi esistenti, Cicerone ricorreva ad una giustificazione, che poteva essere più seria al mos maiorum[294]. Poichè la misura datava da tempo remoto e le precedenti generazioni ne aveano usato più volte nell’esercizio del governo della republica, doveva essere concesso, giusta il dritto publico romano, continuare ad usarne pel presente e per l’avvenire. Cicerone si appellava così, per dirla in termini giuridici, a quell’altra importantissima fonte di dritto costituzionale: la consuetudine. Se non che codesta giustificazione à il torto originario di non giustificare quei casi, da cui appunto si era originata la consuetudine. Ma, come se questo non bastasse, essa non riesce valida per una seconda ragione. Il diritto consuetudinario è fondato sulla voluntas populi, sul tacitus consensus omnium[295]. E questo non parrebbe davvero il caso del s. c. u.

Tutto ciò, senza tornare alla vexata quaestio, se nel diritto romano la consuetudine avesse o no forza di abrogare la legge‍[296].

5. «Salus populi suprema lex esto»‍[297], concludeva [95] l’Arpinate. Vedremo più innanzi quanta ipocrisia si nasconda dietro questa sedicente invocazione della difesa del popolo, che si sarebbe assunta uno solo dei poteri dello stato, quello appunto a cui essa non competeva. Per ora terminiamo col notare come codesta ideale lex della republica ciceroniana, per mala ventura dei ciceroniani conservatori di Roma, non si era mai votata, proprio nei comizi del popolo.

VI.

Rimane una questione. I populares nelle loro proteste e nei processi intentati, dopo un s. c. u., non attaccarono che i magistrati, i quali aveano ordinato la repressione, o i cittadini che l’avevano eseguita. Perchè non porre piuttosto in istato d’accusa il senato?

Francamente, la ragione non è evidente, tanto più, quando si pensa che la cosa non subì nè eccezioni, nè discussione.

Se ragione legale ci fu, certo però sarà stata quella additataci dal Willems‍[298]. Per loro, il senato non poteva considerarsi che «come corpo consultivo, come consiglio dei magistrati». «La responsabilità dell’esecuzione incombeva sui magistrati, che l’aveano ordinata, o sui cittadini che vi aveano partecipato».

Ma era appunto in ciò che essi avevano torto, come centomila ragioni ebbero gli accusati nel difendersi, rovesciando sul senato la responsabilità dei propri atti‍[299]. La strage di Tiberio e dei suoi seguaci, perpetrata contro la volontà stessa del console, additava a chiare note i veri responsabili della reazione.

[96]

VII.

A tutti gli argomenti dei populares qualche moderno potrebbe però contrapporre un’interrogazione.

Accusando d’illegalità l’agire, in qualsiasi caso, al di fuori della costituzione, non si veniva a ribadire il più cupo conservatorismo, e a volere canonizzata, come rispondente a tutti i bisogni sociali ed a tutti i tempi, una costituzione, che in realtà, non rispondeva, se non a quelli di un’età trapassata? Ed i sostenitori di una simile teoria, anzichè dei radicali, non dovrebbero in tale caso considerarsi come dei puri reazionari?

L’ipotetica interrogazione non l’avrebbero certo mossa i conservatori di Roma, i quali mostravano di ritenere tanto sacre le loro istituzioni, da considerare come un attentato alle medesime, non dirò l’opera dei Catilinari, ma persino quella tanto più blanda di Tiberio Gracco.

Ma, a chi ben guardi, non può nemmeno proporsela un moderno.

La costituzione deve bensì essere un organismo tanto liberale, da permettere la revisione di se medesima, senza consacrare, come, stando alla lettera degli statuti, avviene nella maggior parte dei regimi costituzionali odierni, la tirannia della propria inviolabilità; ma codesta revisione non può non essere compito del potere legislativo; e questo, in Roma, si considerava capace di radicali emendamenti.

Il torto quindi dei republicani del tempo consistette nell’avere strappato codesto dritto a chi esso realmente competeva, concedendolo, come vedremo, negli interessi di una sola classe, ai soli rappresentanti della medesima.

[97]

CAPITOLO V. Dal senatus-consultum AL senatus-consultum ultimum.

I.

Il s. c. u. segna il momento più importante della conquista dell’amministrazione interna di Roma da parte del consiglio senatorio.

Si è notato come la storia di quest’ultimo possa definirsi una costante, accelerata invasione nel campo del potere esecutivo. Or bene, noi ci proponiamo di studiare in questo capitolo per quali vie esso, dalle competenze, che gli assegnava la costituzione, passò a invadere l’ambito di poteri non suoi, pervenendo al s. c. u.

II.

Il s. c. u. fornisce di un valore imperativo le decisioni del senato. E su questa via non erano trascurabili i progressi compiuti dal medesimo.

Rispetto al potere esecutivo, rappresentato dai magistrati, il senato non aveva per legge che un potere consultivo, per cui quelli doveano sottoporgli l’esecuzione degli atti più importanti del governo‍[300].

Ma, dopo la legge Publilia del 339 e la Menenia del 338, tale procedura divenne obligatoria per le rogationes, che il magistrato si apparecchiava a presentare al popolo allo scopo di convertirle in legge‍[301]. Ciò parve [98] un’innovazione liberale, in quanto toglieva al senato il diritto alla convalidazione delle decisioni dei comizi, sia nel campo legislativo, come nell’elettorale; ma non lo fu con certezza rispetto alla magistratura. Era ben più agevole, osserva il Willems, impedire preventivamente a un magistrato la presentazione di una proposta di legge o rifiutare una candidatura, che annullare una legge già votata od una elezione‍[302].

Il dritto pubblico non imponeva altrettanto per i rimanenti atti magistratizi. Tuttavia, il senato avea, poco a poco, conquistato dei mezzi diretti e indiretti, capaci di forzare i magistrati a consultarlo:

1. Poteva invocare i tribuni della plebe perchè glielo facessero imporre da un plebiscito, o sottomettessero essi stessi la questione al senato.

2. Poteva — come avvenne pel richiamo di Cicerone — minacciare il rigetto di tutte le relationes magistratizie, finchè una data questione non gli si fosse sottoposta.

Tutto questo riesciva però di un valore pratico meschinissimo. Se il magistrato, pur sottoponendo al senato la sua relatio, si trovava a vedere scartato il proprio avviso, poteva intercedere alla sententia senatoria, annullandone ogni valore.

Ma, in realtà, il senato aveva in tal caso a sua disposizione un nuovo mezzo: poteva invitare un tribuno, contro cui nè consoli, nè pretori aveano dritto all’intercessio, a dare con un plebiscito forza di legge alla sua sententia.

Nell’ipotesi più favorevole, in cui cioè il s. c. non avesse patito intercessio, i magistrati non erano tenuti [99] ad eseguirlo. Or bene, il senato era giunto ad imporre anche allora la propria volontà.

Bisogna per ciò distinguere i s. c.ª ordinari dagli altri, votati su questioni speciali, la cui decisione era stata, per legge, delegata al senato.

In questo secondo caso, il s. c. avea valore esecutivo, e, contro di esso, era preventivamente vietata ogni intercessio[303]. Quanto ai primi, fa d’uopo distinguere i magistrati, investiti dell’ius referendi, dai minori e dai promagistrati.

Rispetto a quelli, il senato non disponeva che della propria autorità. I magistrati erano temporanei, il senato vitalizio. A lui solo competeva il decreto e la proroga delle province, come l’approvazione o meno delle varie candidature e lo stanziamento dei fondi pei pretori e pei consoli assenti dalla capitale. Aggiungi la tradizionale influenza morale; ed ecco dei mezzi di coazione abbastanza energici.

Ai magistrati minori, invece, sprovvisti dell’ius referendi, il senato trasmetteva le sue decisioni per mezzo dei capi del potere esecutivo. In tale caso, pur facendoli obbedire soltanto ai loro superiori‍[304], esso veniva di fatto a costringerli al proprio impero.

I promagistrati erano, anche entro l’ambito del loro dominio, al di sotto dei magistrati corrispondenti, e solo una legge o un s. c. poteva eguagliarveli‍[305]. Anche a questi il senato trasmetteva le sue decisioni per mezzo dei capi del potere esecutivo residenti in Roma. Se non [100] che, venendo le loro funzioni delegate per s. c. previsto dalla legge, e, potendo per s. c. essere ritolte,‍[306] tanto più forte era l’obbligazione morale, che verso di esso ne seguiva‍[307].

Ma il consiglio senatorio non era semplicemente arrivato a costringere la volontà e l’opera di ogni ordine di magistrati. Nel caso che costoro si fossero dimostrati o si prevedessero inflessibili, anche dopo le leggi Publilia e Menenia, esso non avea perduto la voglia di ricorrere all’annullamento delle elezioni.

A tale scopo, consultati gli auguri, emanava un s. c., pel quale, constatando nell’elezione un vizio di procedura, invitava il magistrato a dimettersi‍[308].

Ma si fosse arrestato agli inviti!

Quando tale necessità sopraggiunse durante la gestione magistratizia, il senato ardì ricorrere a una cruda e semplice destituzione. Così avvenne all’87 per Cinna‍[309], e al 62 per Cesare‍[310].

Ma ciò, che avea dato origine a tanta potenza, non era questa o quella via palese d’influenza sul potere esecutivo; era invece la tradizionale consuetudine di quest’ultimo di interrogare il senato in ogni affare di governo, la quale avea creato una serie innumerevole di atti, per cui il chiedere consiglio era divenuto obbligatorio, come, sempre per tradizione, obbligatorio l’obbedire.

Quando si pensa che a rigore poteva dirsi non esistere atto dei funzionari del dipartimento delle finanze, [101] della guerra e degli affari esteri, che non presupponesse un s. c., e, quando si considera l’importanza dei medesimi negli ultimi anni della republica, non si può non prevedere un’invasione dell’autorità del senato in dipartimenti, che esso avea altresì curato di non lasciare inviolati.

Un consiglio, che s’ingeriva nella discussione di tanti affari, non poteva, a nessun patto, sottostare alla contraddizione interna della propria situazione, per cui esso poteva vantare ogni dritto a interloquire su tutto, e nessuno ad imporre l’esecuzione dei proprii consigli. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto scegliere tra le due vie, che gli rimanevano: o rinunziare a tutti i suoi poteri consultivi o assurgere ad assemblea dirigente. Si aggiungeva a favorirlo l’indeterminatezza, in cui la legge lasciava i magistrati sul loro obbligo di consultarlo e il senato sul dritto di richiedere la domanda del proprio consiglio. Su tale sdrucciolo, questo scelse la via, che gli si parava più conveniente: dal s. c. si avviò al s. c. u.

III.

Ma se il senato, come abbiamo visto, possedeva già i mezzi per sbarazzarsi dei magistrati, ostili o disobbedienti, poco meno fortunata posizione esso avea conquistata rispetto ai tribuni.

Anche l’intercessio tribunizia destituiva il s. c. d’ogni effetto legale. Ma, oltre ai casi previsti dalla legge, pei quali era vietata ogni intercessio, anche se tribunizia‍[311], il senato possedeva il «s. c. contra rempublicam factum [102] videri», valido contro magistrati e tribuni, per cui si minacciava agli avversari lo stigma di nemici delle istituzioni, quasi come preludio a un s. c. u., e s’invitavano i consoli a riferire al senato sull’intercessio[312].

Quest’espediente era usato, non solo contro atti passati, ma eziandio contro atti futuri, che o magistrati o tribuni avessero avuto voglia di compiere‍[313], venendo così a ledere i loro dritti, non solo di cittadini, ma di rappresentanti del popolo.

Quando poi questi ultimi non sembravano, per ciò soltanto, intenzionati a cedere, il senato, con un atto, che richiama il dominio del s. c. u., o ne impediva con la forza l’intervento alle proprie assemblee, indispensabile alla validità dell’intercessio[314], o ne reprimeva l’agitazione iniziata, ordinandone sia l’arresto‍[315], che la destituzione‍[316].

Ma, se tutto ciò non fosse bastato, rimaneva al senato l’espediente della dittatura‍[317].

Non è ben certo se la sua autorizzazione alla creazione di tale magistrato fosse contemplata da legge alcuna. Certo esso non se ne lasciò mai sfuggire la prerogativa, la quale, anzi, si era così strettamente legata alle sue peculiari competenze, che Cicerone, nel «De legibus», avea sottoposta la nomina del dittatore alla diretta giurisdizione senatoria‍[318]. Sembra anzi che la [103] conseguente decisione fosse ritenuta coercitiva rispetto al magistrato, che l’avrebbe eseguita.

La minaccia d’imprigionamento, da parte dei tribuni, contro i consoli del 431‍[319], se questi non avessero obbedito al s. c., ingiungente la nomina di un dittatore, non può poggiare su altro fondamento.

Tale s. c. esclude altresì l’intercessio dei tribuni o dei colleghi contro il magistrato incaricato della nomina, il quale, d’ordinario, subisce la designazione del senato, o gli sottopone la propria proposta.

Accanto al dittatore, i magistrati più elevati, i consoli, rimangono in posizione subordinata, destituiti del dritto del veto, di cui godevano rispetto ai colleghi di pari autorità.

Lo stesso è a dirsi dei tribuni.

Il senato quindi, con una indovinata designazione dittatoria, poteva talvolta vantarsi di aver fatto il migliore dei propri interessi possibili, se non vi fosse occorso qualche relativo svantaggio, che avremo occasione di notare in seguito.

IV.

Nessun s. c. u. ci à dato luogo a dubitare dell’affidamento a privati della suprema eccezionale tutela della repubblica.

La cosa procedette alquanto diversamente rispetto alle misure ad esso concomitanti. Al 49, l’abbiamo notato, furono affidate a dei privati quattro province, due pretorie, e due consolari, senza che il loro imperium forse riconfermato da una deliberazione popolare‍[320].

[104]

Or bene, anche questo caso vantava i suoi precedenti.

Il senato, nell’assenza dei titolari, si era a più riprese permesso di colmare dei comandi militari vacanti con dei privati, invitando i magistrati cum imperio, capi del potere esecutivo, a mandare provvisoriamente, cum imperio, quei cittadini, che avessero creduto. Ed esso poteva concedere ad un generale, incaricato della direzione di due eserciti in regioni differenti, il permesso di affidare uno dei medesimi a un suo delegato. Ma i succitati sono da considerarsi come incarichi trasmessi dai magistrati competenti, caso previsto dalla costituzione.

Al 212 il senato fece un passo innanzi: accordò a un centurione primipilare un corpo di 8000 soldati col dritto di arrolarne dei nuovi.

Al 211, con Annibale alle porte di Roma, decretò che tutti gli ex-dittatori, consoli e censori si ritenessero in pieno possesso dell’imperium finchè il nemico non si fosse ritirato dalle mura. Al 173 inviò cum imperio in Puglia un praetor designatus[321], all’82 Cn. Pompeo, un privato cavaliere romano, in Sicilia e indi in Africa, propretore contro i partigiani di Mario‍[322], al 77 il medesimo, proconsole contro Sertorio,‍[323] e, insieme con Catulo, generale supremo nella campagna contro Lepido‍[324].

Più in là non si poteva andare.

[105]

V.

Dietro un s. c. u., il senato eleggeva i consoli senza deferenza alla volontà popolare.

Tale atto, benchè nuovo nella sua forma specifica, non manca di preparazione, e si ricollega strettamente alla nomina dei dittatori, proposta ed imposta dal consesso senatorio. Appiano lo dichiara senza reticenze‍[325]. L’uno e l’altro espediente infatti non mirava che ad evitare gl’impicci, che la collegialità avrebbe arrecato a un regime deliberatamente autocratico.

VI.

Della dichiarazione d’hostis p. abbiamo parlato. Essa coesisteva, senza dipenderne, al s. c. u.

Quanto alla guerra, più volte mossa, contro magistrati e promagistrati per decisione definitiva del senato, è a notare come, anche in ogni altro caso, stabilirne l’opportunità era stata una prerogativa, dal medesimo gelosamente assunta e custodita. E, nel caso di una guerra intestina, nel caso cioè, in cui erano impegnati gl’interessi di una sola delle classi sociali, era ben naturale che quello dei poteri politici, che la rappresentava, riserbasse come esclusivo per sè quel diritto, che negli affari esteri, d’interesse comune, aveva partecipato coi rimanenti.

VII.

La violazione, da parte del senato o dei capi del potere esecutivo, del dritto di provocatio, ricorda i tempi d’oro [106] dei primi secoli dell’oligarchia repubblicana di Roma, quando era di pertinenza del dittatore, già proposto dal senato, sottrarre le condanne capitali al voto definitivo dei comizi.

Ma non soltanto quei tempi. Negli ultimi due secoli della repubblica abbiamo più di un esempio di tribunali eccezionali, prescritti, e, spesso costituiti dai comizi, pel giudizio di fatti particolari.

Del secondo a. C. se ne contano uno del 113, uno del 110‍[326] e due del 172 e 141‍[327], nei quali ultimi la nomina delle commissioni giudicanti fu riserbata al senato, e riescirono eletti un pretore ed un console‍[328]. I loro giudizi, come quelli di ogni quaestio extraordinaria[329], facevano a meno della provocatio. Tali consuetudini solleticavano le voglie autocratiche del senato e dei capi del potere esecutivo. Al 271 la ribelle legione campana, costituita di cittadini romani, fu rinviata a Roma pel giudizio, e i colpevoli, o per ordine diretto del senato, o per ingiunzione di qualche magistrato cum [107] imperio vennero battuti a verghe ed uccisi‍[330]. Con tali procedimenti si vennero a violare la legge Porcia e le altre de provocatione.

Ma ci si fosse fermati ai tribunali eccezionali per dei cittadini sotto le armi! Al 132, il tribunale nominato per giudicare la ribellione dei seguaci di T. Gracco, oltre a non tenere conto delle forme normali del giudizio, concedenti il discarico e la difesa, terminò coll’emanare sentenze di morte inappellabili‍[331].

VIII.

Questo per l’emancipazione della provocatio. Quanto alla costituzione dei tribunali eccezionali, durante l’impero del s. c. u., essa conta anzitutto i suoi precedenti in simili quaestiones extraordinariae, volute a più riprese dal popolo, e il più delle volte costituite di qualche senatore e dai capi del potere esecutivo. Ma il senato, che per legge fissava e spostava ai pretori i dipartimenti giudiziari,‍[332] avea più volte, e di sua iniziativa, delegato altresì a consoli e pretori, che faceva assistere da commissioni senatoriali, dei processi delicatissimi, i quali erano andati a terminare con pene capitali od esecuzioni, seguite a condanne pronunciate fuori Roma o contro delle donne‍[333]. Così avvenne al 204, al 186, al 180‍[334].

[108]

Le quaestiones perpetuae erano del resto costituite esclusivamente da senatori‍[335], consuetudine interrotta più tardi, ma solo per breve periodo di tempo‍[336]; e, come puro e semplice corpo senatorio, questo aveva altre volte giudicato prigionieri romani, deditizi ed anche tribuni, ordinando, pei primi, l’esecuzione capitale‍[337], e, pei secondi, l’esilio‍[338]. Gli accennati processi del 132 contro i seguaci di Tiberio Gracco segnarono il punto culminante di tale parabola. Per essi il tribunale giudicante figurò nominato dal senato e costituito dalle persone dei due consoli, ai quali si aggiunse C. Lelio‍[339], un semplice privato, e P. Cornelio Nasica, princeps senatus[340].

IX.

Non meno invadente fu l’azione del senato circa le attribuzioni, che rimanevano ai comizi.

Il potere legislativo, le cui deliberazioni erano obligatorie per tutto il popolo romano, spettava, nei primi secoli della republica, ai comizi curiati e centuriati, (le decisioni dei concilia plebis non obligavano che i plebei), e, fino al 339, il senato sanzionava con la patrum auctoritas le leggi e le elezioni.

Ma, dopo il 339 e 338, la sua decisione ebbe la precedenza. Tale innovazione, che, secondo avemmo a notare, [109] fu nociva all’indipendenza della magistratura, non riescì diversa, rispetto ai comizi.

Essendo, per essa, più facile castrare quelle proposte di legge o rifiutare quelle candidature, che al senato non facevan comodo, riesciva agevole interdire in eterno ogni conquista civile e politica delle classi estranee a quella rappresentata dal senato. E pare che a tale inconveniente abbia cercato di ovviare la legge Hortensia del 286, per cui le rogationes potevano presentarsi ai concilia plebis senza autorizzazione preventiva del senato, pur assumendo, se approvate, valore di legge‍[341].

Ma, al 100, il senato annullava le leggi fatte votare dal tribuno Apuleio‍[342], al 99 una di Tizio‍[343], al 91 una di Livio Druso‍[344], al 66 una del tribuno Manilio‍[345]; finchè al 67, quando il tribuno Cornelio emise un progetto di legge, per cui le solutiones legibus (dispense da leggi) dovevano accordarsi solo dietro decisione popolare, il senato vi suscitò tale opposizione, che il tribuno fu costretto a modificare la sua proposta nel senso, che esse sarebbero state accordate dal popolo, ma su iniziativa del senato impassibile d’intercessio[346], disposizione, che formava il coronamento della pratica dei tempi andati‍[347].

[110]

X.

Non rimaneva che crearsi il precedente specifico della misura eccezionale e fu quello che il senato fece al 132. Proprio allora, non ostante l’opposizione del console, esso con a capo il suo princeps marciò addosso a coloro, che presumeva ribelli, e ne fece impune massacro.

Appare quindi chiaro come il senato non sia pervenuto d’un tratto al s. c. u.

Esso, che se l’era preparato da secoli con una costante ininterrotta invasione legale e illegale nell’ambito degli altri poteri dello stato, se ne servì il giorno, in cui, ingaggiata la lotta, si vide costretto a dubitare della sorte futura alla propria supremazia.

Ma quali interessi, in antagonismo con altri, avesse rappresentato, durante codesto suo imperterrito lavorio, lo vedremo nel capitolo seguente.

[111]

CAPITOLO VI. Ragioni dell’origine, della durata e della fine del s. c. u.[348]

I.

Dei quattordici s. c. u.ª meno dubbi della storia di Roma, uno solo fu votato in occasione di guerre estere‍[349]; tutti gli altri per questioni intestine, e, di essi, salvo uno, di cui non conosciamo gli antecedenti, tutti segnano il momento culminante di una lotta di classe. I dodici adunque, che ci rimangono, sia per il loro numero, come per la loro importanza, ci dànno il carattere della misura, la quale, lo ripetiamo,‍[350] originata forse da bisogni di difesa contro nemici esterni, divenne mezzo di vittoria di uno dei poteri politici, e, quindi, di una delle classi sociali su le avversarie.

II.

Nei secoli più fecondi di s. c. u.ª, la lotta tra patrizi e plebei era già esaurita.

[112]

Alla metà del sec. IVº, tutte le magistrature patrizie erano state aperte ai plebei: al 494 l’edilità, al 447 la questura, al 367 il consolato, al 366 la dittatura, al 351 la censura, al 337 la pretura. I concilia plebis eleggevano gli altri magistrati minori ordinari e straordinari‍[351].

E, se così i plebei avevano conquistato ogni diritto alle venture conquiste politiche, essi ne avevano altresì raggiunto la pratica possibilità con le nuove disposizioni sui comizi elettorali e legislativi.

Non è ben certo se, anche durante la repubblica, il dritto di voto nei comizi curiati sia rimasto prerogativa patrizia‍[352]. Ma, se così fosse stato, la cosa avrebbe per noi poco o punto valore, tenuto conto della sempre più ristretta importanza, che ad essi toccò nell’età più vicina ai tempi, di cui ci occupiamo.

Non così accadde pei comizi centuriati, nei quali, dopo il 312, tutti i cittadini ebbero diritto al voto, purchè in possesso d’una fortuna determinata‍[353].

Nel senato, il quale, sin da ora, comincia ad assurgere ad onnipotente consiglio direttivo, i patrizi avevano accolto plebei sin dagli inizi dell’età republicana‍[354].

Al 367, si era aperto loro il collegio sacerdotale dei X viri sacris faciundis, e, con una legge Ogulnia del 300, i collegi dei pontefici e degli auguri‍[355].

[113]

Dal tempo delle leggi de provocatione (509, 449, 300 etc.), della Alternia Tarpeia (454) e della legislazione decemvirale, la competenza nei iudicia publica, relativi ai cittadini, già passata ai comizi centuriati, era toccata anche ai plebei. Nè l’istituzione delle quaestiones perpetuae menomò tale diritto, come quella che richiedeva giurati scelti fra i senatori‍[356]. Pei iudicia privata, i tribunali dei centumviri e dei recuperatores erano costituiti da cittadini, scelti dal pretore; l’altro dei X viri litibus iudicandis veniva eletto nei comizi tributi‍[357].

E, se queste erano state le conquiste dei plebei nel campo civile e politico, poco prima, nell’economico, essi, con le leggi Cassia (466) e Metilia (416), si erano assicurato il diritto alle occupationes e alle assignationes dell’ager publicus, e, con le Licinie del 377, la pratica possibilità dell’attuazione del medesimo‍[358].

III.

La vittoria dei plebei poteva sembrare completa. Ma, allora stesso, per un processo già preparato, che si elaborava in quella parte dell’economia romana, che ne avea formato e ne formava la base principale, (l’agricoltura), e veniva mostruosamente affrettato dalla politica estera dello stato, si apriva il campo ad una nuova lotta di carattere più spiccatamente economico.

Quale sia stato codesto processo noi l’abbiamo visto, studiando le cause, che avevano, sin dai Gracchi, promosso in Roma una più intensa agitazione agraria [114] Ma ciò che allora non dicemmo, ed è adesso indispensabile aggiungere, si è che la politica estera dei Romani, come avea promosso la catastrofe dell’agricoltura, avea del pari snaturato il carattere originario dell’economia nazionale. Le nuove conquiste e le immense ricchezze, che ne provenivano, crearono capitali indipendenti dai redditi della terra, come non era mai avvenuto per il passato, e aprirono innumerevoli e svariate fonti di speculazioni‍[359].

In questo nuovo campo di sfruttamento i più fortunati furono naturalmente i trionfatori della pressochè contemporanea crisi agraria‍[360], e, con essi, quelli, cui l’amministrazione romana poneva più agevolmente a contatto delle nuove fonti dell’oro.

Se non che, l’origine stessa del recente indirizzo economico era tale da non renderlo in nulla paragonabile, nella sua natura e nei suoi effetti, alla grande industria e al libero scambio della nostra età.

Sviluppatosi sovra un terreno di conquiste militari, esso non diede che un’economia di saccheggio e di bottino, una cuccagna per gli avventurieri dell’istante, senza che di tutto ciò potessero risentire beneficio alcuno gli strati inferiori della società‍[361].

I nuovi rapporti, che per tali processi dell’economia [115] nazionale si venivano a stabilire fra suolo o proprietari e lavoratori, fra capitale o capitalisti e nullatenenti, determinarono le nuove classi sociali.

Da un lato i detentori della proprietà terriera, tutti latifondisti, insieme coi grossi speculatori (gli optimates); dall’altro, i proletari urbani e rurali (i populares) con‍[362] i popoli sottomessi a Roma, carichi di quasi tutti gli oneri e sforniti di quasi tutti i dritti dei veri cittadini, (i peregrini).

Le nuove classi mettevano capo, una o più di esse, a uno o più dei poteri costituiti.

Cominciamo dal senato.

Benchè, almeno sotto la republica, non occorresse, per legge un censo prestabilito, pure i senatori erano di regola scelti tra i cittadini, possidenti almeno il censo equestre del tempo: 400000 sesterzi‍[363].

Ne erano formalmente esclusi: 1) i libertini e i loro figli‍[364], disposizione, che, tenuto conto del numero e della sorte dei debitori insolvibili, di cui abbiamo discorso, veniva ad eccettuare una porzione non dispregiabile della cittadinanza; 2) i municipes sine suffragio[365], costituiti dagli abitanti delle città latine o di altri comuni italici, a cui Roma avea concesso una cittadinanza incompleta; 3) gli infames[366], i colpevoli cioè di atti o professioni, ritenute disonoranti, e i condannati per determinati reati, civili o penali, privati o [116] pubblici‍[367], od anche politici, tutte condizioni molto più facili a riscontrarsi fra le classi sociali meno abbienti; 4) i capitalisti speculatori, componenti l’altra frazione della classe dominante, che s’aggiungeva ai grossi proprietari di latifondi‍[368].

Il senato era quindi il rappresentante più schietto della più turchina aristocrazia del suolo, e, nei suoi atti, non avrebbe potuto se non difendere e sostenere gl’interessi della medesima.

I comizi centuriati, campo d’elezione dei magistrati maggiori, ordinari e straordinari, comprendevano diciotto centurie di equites con un censo massimo, e ottanta, costituenti la prima classe della cittadinanza, con 100000 assi. Altre quattro classi, in 90 centurie, comprendevano i cittadini, possidenti da 75000 a 12500 assi di censo. Una sola centuria, non catalogata fra le classi comprendeva l’enorme moltitudine dei capite censi, di quelli cioè tra i proletari, i quali, tutt’altro che nulla-tenenti, possedevano un censo inferiore a 12500 assi, insieme coi libertini, gli artigiani (opifices e sellularii); due, i fabbri in legno e in bronzo, votanti con la seconda classe; due, i tubicines e i cornicines, votanti con la quarta‍[369].

La votazione, facendosi per centurie, gli è evidente come fossero le due prime classi quelle, che, in ogni caso, decidevano del risultato. E, quasi si volesse scongiurare [117] la protesta delle possibili votazioni in contrario della minoranza, si procedeva gerarchicamente dagli equites alle classi inferiori, sì che il voto si arrestava, appena le prime 97 centurie si fossero trovate d’accordo, numero, per cui bastavano gli equites e le centurie della prima classe‍[370].

Al 241, la costituzione dei comizi centuriati subì una riforma, nella quale, benchè in gran parte, non siamo ridotti che a delle congetture, pare non venissero gran fatto modificate le condizioni dei cittadini meno abbienti.

Le cinque classi furono ripartite, ciascuna in 70 centurie, accanto alle quali persistettero immutate le 18 centurie dei cavalieri e l’unica dei capite censi. Il dritto del primo voto passò dai cavalieri ad una centuria, tratta a sorte fra i componenti della prima classe, dopo la quale avrebbero votato i cavalieri, e via di seguito, sì da aversi la maggioranza, appena arrivati alla terza classe, ai possessori, cioè, di 50000 assi, dopo i quali la votazione si sarebbe arrestata‍[371].

Ne segue che, non ostante le apparenze più liberali e democratiche, le decisioni dei comizi centuriati rappresentavano sempre la volontà e gli interessi di quelle classi, che avevano accesso al senato.

I comizi curiati avevano allora perduto ogni importanza politica‍[372].

Più degni di considerazione, sia per la maggiore indipendenza legislativa, sia per la democratica costituzione, erano i comitia tributa, campo d’elezione dei magistrati minori e dei tribuni plebis.

[118]

Essi erano costituiti dalle 35 tribù, formate, a lor volta, dai cittadini domiciliati nel territorio della tribù, e votavano tributim[373].

Ho detto «cittadini» per avere agio a notare come, anche in questa, che era la più democratica delle istituzioni dello stato, non trovavano rappresentanza gli interessi di una grandissima parte della popolazione, cui il governo non si facea scrupolo di addossare oneri in beneficio dei privilegiati.

Ne erano infatti esclusi, il che accadeva a maggior ragione pei comizi centuriati, i figli, anche maggiorenni, offerti dal padre in mancipium per estinguere un debito o riparare un dato suo atto, gli addicti e i nexi, (prigionieri per debiti), i municipes sine suffragio, gli infames e i colpiti di nota censoria[374]. Irrisorio era l’ius suffragii, riserbato ai libertini, senza parlare degli esuli, dei deportati, e dei numerosissimi peregrini[375].

Ma inconveniente più grave era nei comizi tributi la sproporzione tra la popolazione della campagna e quella della città.

Le quattro tribù urbane votavano per le prime, le tribù rustiche, inscritte le ultime, raramente‍[376].

Il plebeo della campagna per recarsi al Foro dovea percorrere un cammino lungo e faticoso. Nei dintorni di Roma, si stendeva una vasta e sterile pianura, dove sorgevano le ville dei senatori, ma donde era scomparsa [119] la popolazione agricola, che era andata ad abitare lungo il Liri, sui monti Volsci, a Fregelle etc., a una distanza di 30 leghe circa dalla capitale. Tale svantaggio era stato aggravato dalla legge Fufia del 136, dopo la quale gli abitatori della campagna non poterono più valersi della fortunata coincidenza dei giorni di mercato coi giorni comiziali.

Ma se contro tutto ciò poteva valere il compenso del numero maggiore delle tribù rustiche, la popolazione urbana riesciva di fatto ad ottenere un’enorme preponderanza, potendo, a preferenza della rimanente, agire ed imporsi in tutte quelle manifestazioni della vita pubblica, che preparano, e talvolta decisamente, il risultato delle votazioni. Senza occupazione, numerosa, e spesso selvaggia per miseria, essa si aggirava a squadre per la città, protestava nelle pubbliche riunioni, impediva l’accesso al luogo dei comizi, violentava i votanti, falsava i resultati delle urne. Per colmo di sventura, la plebe rustica, dalla quale si cavava il maggior contingente per l’esercito, decimata dalle guerre incessanti, avea cominciato a scemare sin dal giorno, in cui avea cessato di accrescersi. Gelosa dei conquistati diritti di cittadinanza, si era sempre negata a dare accesso a nuove popolazioni, lasciando che la direzione della politica della capitale restasse in mano dei residenti nella medesima‍[377].

Quasi tutte codeste restrizioni pesavano altresì sull’ius honorum, sul diritto cioè di aspirare alle pubbliche cariche col soprammercato dell’esclusione degli opifices, dei sellularii, dei proletarii, dei capite censi e [120] dei figli dei libertini[378], una bagattella, come è palese.

La nomina dei titolari dei collegi sacerdotali spettava ai membri del collegio‍[379], e chi pensa come la lotta per l’ammissione dei plebei ai medesimi non era stata di tutta la plebe contro i patrizi, ma solo dei più ricchi‍[380], e come la vita pubblica romana non contasse atto, nel quale la religione non venisse a portare una nota decisiva, intenderà come tali disposizioni sarebbero in avvenire venute a nuocere agli interessi delle classi sociali meno abbienti.

La giurisdizione civile e la criminale per reati privati era, in massima parte, in mano di tribunali costituiti dal pretore, e, in minima‍[381], dei X viri, eletti dai comizi tributi; la giurisdizione penale pei reati d’azione pubblica, in mano dell’ordine senatorio.

Chi rammenti adesso le competenze dei pubblici poteri, la cui costituzione noi abbiamo esposto, potrà prevederne lo svolgimento e le vicende.

Il senato non permetterà mai candidature o votazione di leggi, ledenti per poco gl’interessi dell’aristocrazia. I comizi centuriati metteranno in scacco le prime e respingeranno le seconde; nessuno dei magistrati maggiori presenterà di simili rogationes; gli auguri saranno sempre pronti ad interrompere le adunanze, sia elettorali che legislative, o a cassarne per vizio di forma le decisioni, nè mai i populares otterranno giustizia dai giudici di una classe sociale con interessi opposti [121] alla loro, in tutti quei casi, nei quali in ballo ci sarebbero stati per l’appunto codesti interessi medesimi.

La loro causa sarebbe apparsa disperata se le trascorse conquiste dei plebei non avessero inconsapevolmente, coi comizi tributi e col tribunato della plebe, preparato l’arme migliore ai danni dell’oligarchia dominante.

Così il conflitto tra le varie classi sociali si palesa nella vita politica segnatamente come conflitto fra il senato e il tribunato del popolo in alleanza coi comizi tributi.

IV.

E la lotta s’ingaggia su tutte le quistioni, cui dava adito il problema sociale del tempo. Cominciamo dall’economica.

Al 133, Tiberio Gracco propone e fa approvare dai comizi tributi una legge agraria. Il senato rifiuta lo stipendio ai triumviri incaricati dell’esecuzione, e, più tardi, col farli menomare del potere giudiziario, indispensabile all’opera loro, li costringe all’inazione.

Al 124, C. Gracco ripresenta la legge, ed il senato vi scatena contro la concorrenza demagogica di Livio Druso; il console Opimio è pronto a dare ascolto agli auguri, che giudicano la divinità contraria all’istituzione della principale colonia transmarina, Cartagine, ed entrambi, benchè approvata, non dànno esecuzione della legge.

Al 104, Lucio Marcio Filippo è costretto a ritirare la sua rogatio agraria.

Al 100 Saturnino, contro la volontà del senato, fa votare una legge frumentaria e una coloniaria, e questo le abroga l’una dopo l’altra.

[122]

Uguale sorte tocca alle leggi Tizia (99) e Livia (91).

Il console Cicerone, con la piena adesione del senato, mette in iscacco la nuova legge agraria di P. Servilio Rullo (64), costringendo il proponente a ritirarla, sorte uguale a quella che consoli, senato e aristocratici faranno toccare alla Flavia del 60, finchè un’identica proposta non metterà Cesare in rottura col senato (59).

Di leggi agrarie, non contraddette nè abrogate dall’aristocrazia, non conosciamo se non quelle, che, a loro volta, annullavano qualcuna delle già votate negli interessi del popolo minuto: una del 121, la Thoria del 118 o 109, la Bebia del 111‍[382].

Non diversamente accade nel campo politico.

Tiberio Gracco si presenta al suo secondo tribunato, annunziando quel corpo di leggi, che condurrà in porto il fratello Caio, ed il senato si affretta a toglierlo di mezzo.

Caio ottiene l’abbreviamento del servizio militare, il divieto d’arrolamento dei cittadini inferiori a diciassette anni, l’indennità per le forniture militari, tutte riforme in pro dei populares. Rimaneggia sostanzialmente l’ordine della votazione nei comizi centuriati, togliendone, per quanto era possibile, l’originario spirito timocratico; fa stabilire per plebiscito che le riscossioni dei numerosi tributi asiatici si appaltassero in Roma, il che avrebbe fatto la fortuna degli speculatori della capitale, avversi all’ordine senatorio, ed il solito Opimio ne annulla durante la sua assenza le leggi. Propone la cittadinanza romana pei Latini, insieme con la latina per gli Italici, e l’aristocrazia, per bocca del console Caio [123] Fannio e del tribuno Livio Druso, gliel’avversa dinnanzi ai comizi tributi, i quali, poichè adesso si trattava di gente che non vi era rappresentata, la respingono sdegnosamente, mal sopportando di dovere far parte anche ad altri dei propri dritti di cittadini. Senato e consoli terminano coll’assassinare il tribuno e sterminare con le armi ed i processi i componenti delle classi sociali, che quegli avea rappresentato‍[383].

M. Livio Druso il giovane ripropone al 91 la legge relativa alla cittadinanza dei confederati italici, e gli si oppone il console Filippo, feroce partigiano della supremazia dell’ordine equestre, che quegli è costretto ad imprigionare.

Il senato la permette, solo perchè con essa si accompagnava l’esca lusinghiera della restituzione del diritto di giudicare nei iudicia publica, già da Caio Gracco trasmesso ai cavalieri. Ciò non per tanto, fattasi tosto palese l’astuzia della concessione, il senato medesimo annullava la legge e Druso periva assassinato‍[384].

Tre anni dopo, Sulpicio Rufo propone che i nuovi cittadini, (gl’Italici, fedeli durante le ribellioni del 91 e dell’88, e quegli altri, che si erano allora sottomessi), fossero ripartiti in tutte le 35 tribù, anzichè in otto soltanto, come, sotto la minaccia del pericolo imminente, aveano stabilito le leggi Iulia del 90 e la Plautia Papiria dell’89, condizione necessaria per non rendere irrisoria la concessione; ed il senato induce i consoli a sospendere i comizi. Silla, uno dei medesimi, schiaccia con l’esercito l’agitazione, assassina Sulpicio, costringe Mario, [124] uno dei più cospicui tra i democratici, a scampare dalla morte colla fuga, e condanna alla pena capitale dodici dei più noti loro amici politici, vietandone l’appello al popolo‍[385].

Silla stesso, all’88 e all’83‍[386], compieva nella costituzione repubblicana una riforma, ch’era agli antipodi di quella di Caio Gracco. Restituiva di bel nuovo in vigore l’ordine di votazione e l’assetto serviano dei comizi centuriati; stabiliva un censo per l’elezione dei consoli, pretori e censori, e vietava ai tribuni di convocare i comizi tributi, e di presentarvi proposte, che non avessero riscosso l’approvazione del senato‍[387].

L’iniziativa in materia di legge tornò così ai comizi centuriati, mentre, tra l’altro, s’elevavano i poteri del senato, ritogliendosi al popolo il diritto di prorogare annualmente l’imperium dei governatori di province, i quali sarebbero rimasti in carica finchè il senato non ne avesse designato i successori, e sopprimendo il potere regolatore dei censori sul medesimo. Oltre alle proscrizioni, con cui il reazionario generale li aveva perseguitati, l’ultimo tracollo al ceto dei cavalieri fu offerto dalla soppressione degli appalti dei tributi asiatici‍[388].

La restaurazione sillana, come in parte l’esito delle precedenti agitazioni legali, riescirono di tremenda lezione alla democrazia, la quale, sin d’allora, cominciò [125] a sperare soltanto nell’azione energica di un generale a capo d’esercito, speranza che avea concepita sin dai tempi di Mario, e che fu coronata dall’opera di Cesare.

La loro lotta politica smesse quindi l’antica tattica, e da agitazione legalitaria, assurse a rivoluzione extralegale.

Aprono il fuoco Sertorio in Spagna, Lepido in Etruria, ed il senato si libera dell’uno con l’invio di Pompeo (77-2)‍[389]; dell’altro, con quello di Pompeo medesimo e Q. Catulo‍[390]. (77)

Segue al 71-0 la coalizione dei generali, Pompeo e Crasso, con la democrazia, per mezzo dei quali s’impone al senato il silenzio e si abroga la costituzione Sillana‍[391].

Indi è la volta dei Catilinari in Etruria (63), dei quali il senato si sbarazza con l’invio di M. Antonio‍[392], e finalmente quella di Cesare, che, reduce dai trionfi gallici, la spunta coll’oligarchia republicana e inaugura la monarchia militare‍[393].

Poco meno accanita è la lotta nel campo giudiziario, nel quale i capi della democrazia ereditano dai Gracchi la tattica di insinuare la discordia tra i due ordini dell’aristocrazia: latifondisti (senatori) e capitalisti (cavalieri).

Caio Gracco conferisce al popolo il dritto di giudicare e condannare i magistrati, che avessero colpito qualche cittadino, non osservando le garanzie statutarie; [126] impone per le condanne a morte l’obligatoria ratificazione dei comizi, e, nei tribunali penali per reati d’azione pubblica, sostituisce ai senatori i cavalieri‍[394] (123).

Una rogatio Servilia del console Cepione ridona ai senatori l’esclusivo privilegio dei giudizi (106).

C. Servilio Glaucia ritorna all’ordinamento gracchiano (100-104). La legge Plautia, dell’89 permette a ciascuna tribù di eleggere nel proprio seno 15 giurati. Silla, all’81, per la legge Cornelia, abolisce di nuovo i tribunali dei cavalieri e ripristina i senatorii. Una legge Aurelia del 70, del periodo cioè della reazione democratica contro la restaurazione sillana, ripartisce l’amministrazione della giustizia penale tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii, cittadini con un censo inferiore all’equestre, probabilmente di 300000 sesterzi‍[395]; finchè, al 58, Clodio fa votare un plebiscito, riproducente quello di Caio Gracco, per cui si autorizzava il popolo ad esiliare quei magistrati, che avessero condannato a morte dei cittadini senza aver provocato l’assenso dei comizi‍[396].

Così nel campo sacerdotale. Al 145, il tribuno Caio Licinio Crasso avea presentato un progetto di legge, tendente a sostituire alla cooptazione il suffragio dei comizi tributi nell’elezione dei titolari dei collegi sacerdotali. [127] Combattuta dall’aristocrazia, la proposta abortì‍[397]. Al 104, il tribuno Domizio Enobarbo ne ripiglia il tentativo, che, non ostante le antiche ostilità, riesce a condurre in porto‍[398]. La legge Domizia viene abrogata da Silla‍[399], finchè al 63, con l’aiuto di Cesare, il tribuno T. Azio Labieno la rimette in vigore‍[400].

Le elezioni consolari, come del resto le tribunizie e le pretorie, sono, ogni anno, teatro di lotte accanite.

Scegliendo, per esempio, il decennio 65-53, troviamo al 64 Catilina e Antonio contro Cicerone, candidato dell’aristocrazia; al 63, Catilina stesso contro Silano e Murena, noti conservatori; al 61 e 60, Pupio Pisone e L. Afranio, imposti da Pompeo, allora rappresentante della democrazia, non ostante la viva opposizione del senato; al 59, G. Cesare con L. Lucceo contro il candidato dell’aristocrazia, L. Calpurnio Bibulo; al 58, A. Gabinio e C. Pisone Cesonino, l’uno ufficiale di Pompeo, l’altro, suocero di Cesare, imposti dai triumviri, Crasso, Cesare e Pompeo; al 55, Crasso stesso e Pompeo contro il nobile Domizio Enobarbo; al 54, Domizio Enobardo medesimo, vittorioso contro gli sforzi della coalizione democratico militare, capitanata da Crasso e Pompeo; al 53, Planco Ipseo con Metello Pio Scipione contro il feroce reazionario Milone.

E la classe dominante, per mezzo dei poteri, a cui metteva capo, non solo rivolgeva i suoi colpi contro [128] i candidati dei populares, ma ne attaccava le associazioni politiche.

Rispetto alle medesime grava presso gli storici il tradizionale pregiudizio di considerarle quale covo impuro di raggiri elettorali, mentre un’interpetrazione più positiva della loro funzione politica e sociale, insieme con l’esame degli attacchi, a cui esse furono segno, basterebbe per riabilitarle.

Infatti al 68 o 64, un s. c, sopprimeva le nuove associazioni di proletari, che fossero ritenute contra rempublicam.‍[401] Al 58, Clodio richiamava in vita le antiche, inaugurandone delle nuove‍[402]; ma, immediatamente dopo, un nuovo s. c. tornava a scioglierle (56), minacciandone i membri della pena de vi[403]. Non era dunque la corruzione elettorale, come gli storici han sempre mostrato di credere, ma l’organizzazione democratica, che il senato mirava ad infrangere, ed è un ben curioso, ma eloquente contrasto quello, che gli ultimi 150 anni della republica romana ci offrono tra i s. c.ª de sodaliciis, tendenti a prevenire le insurrezioni e le organizzazioni politiche, promossi tutti dagli optimates[404], e le leggi de ambitu, tendenti a [129] reprimere il broglio elettorale, partite tutte dai populares[405].

Era ben prevedibile che la classe sociale, la quale godeva da parecchi secoli il privilegio, il potere e l’agiatezza, ed ora si ritrovava minacciata da avversari, che le davano battaglia sul terreno stesso della costituzione, escogitasse pel principale dei suoi organi politici, il senato, qualche nuovo mezzo di difesa e di offesa, qualche ripiego, per cui, in date circostanze, potesse fare a meno delle leggi.

Di antichi, non poteva rammentarne che uno solo, straordinario sì, ma non extra-legale: la dittatura seditionis sedandae causa. Salvochè quest’arme, spesso pericolosa, perchè a doppio taglio, avea finito con ispuntarsi.

V.

La nomina del dittatore‍[406] era infatti riescita, sotto molti aspetti, svantaggiosa al senato sin dal tempo, in cui codesta magistratura resisteva ancora all’azione dei partiti democratici.

[130]

Il dittatore, rispetto al senato, possiede un’indipendenza maggiore, che non i consoli. Non ostante la testimonianza di Zonara, tutto ci induce a credere che esso, per quanto concerneva il pubblico tesoro, fosse dispensato dall’autorizzazione senatoria‍[407].

Ma, se in ciò i suoi dritti non superavano gran fatto quelli dei consoli, residenti nella capitale, riescivano tali, quanto alla dispensa da ogni rendimento di conti al termine della gestione, grave lesione della strapotenza del senato nel dipartimento delle finanze.

D’altro canto, mentre il console in guerra non poteva, di regola, arrolare più di quattro legioni, il dittatore non conosceva limiti a tale suo diritto, come iniziata la campagna, i legati del senato venivano meno frequentemente ed intensamente a circoscriverne l’indipendenza‍[408].

Il posto più elevato, che al dittatore competeva, rispetto ai capi del potere esecutivo, avea gradatamente reso i consoli meno proclivi a tale nomina, che loro competeva di dritto‍[409]. E, se talvolta vi erano stati coattati dalle minacce dei tribuni, tal’altra aveano scelto contrariamente ai voleri del senato‍[410].

Questo secondo caso, che poteva ripetersi con esito peggiore, ogni qualvolta tra senato e consoli fosse esistita collisione di intendimenti rendeva, per quest’ultimo, parecchio pericoloso l’espediente della dittatura.

Peggio accadde, quando l’azione incessante dei partiti [131] democratici fece sì che il popolo intervenisse più seriamente e più consuetamente a limitare, giusta gli obblighi della costituzione, i poteri dittatoriali. Già, al 356, i plebei avevano conquistato codesta magistratura; e, benchè le nuove lotte non si sarebbero più combattute fra patrizi e plebei, ma fra optimates e populares, tornava pericoloso agli interessi dei primi l’affidarsi ad un magistrato, che, pur ieri, avea figurato tra le file del partito più liberale e democratico. Sembra che sia stato proprio quest’inconsapevole istinto di difesa a dirigere l’opposizione del senato contro gli atti del primo dittatore plebeo, C. Marcio Rutilo‍[411].

Ad una data non ben definibile, la dittatura, in origine esente dalla provocatio, terminò per esserne dichiarata passibile‍[412]. Lo stesso è a dirsi dell’intercessio tribunizia‍[413]; e così la dittatura fu vista in seguito, nelle lotte che ebbe a sostenere contro i tribuni, vacillare e piegarvisi‍[414].

Già dispensato da ogni rendimento di conti, il dittatore fu ridotto a dover rispondere dei propri atti e a sottostare alle pene adeguate al pari di qualsiasi magistrato‍[415].

Peggio ancora gli toccò, quando, per plebiscito, i suoi poteri furono equiparati a quelli del magister equitum[416], il che era un insinuare il principio e le garanzie della collegialità, che destituiva la dittatura della sua ragion d’essere.

[132]

I comizi, che prima non partecipavano alla dictio di codesto magistrato, v’intervennero di fatto più tardi, e si vide persino un dittatore, nominato per designazione dei concilia plebis[417], i quali, per colmo di misura, dietro la legge Hortensia del 286, acquistarono il diritto di legiferare indipendentemente dalla volontà e dai divieti dittatorii‍[418].

Così il magistrato in discorso, scelto tra i più cospicui cittadini, in un momento di crisi sociale, nè facea decadere le guarentigie costituzionali, nè escludeva una conciliazione delle lotte intestine col sottostare alla legge.

L’arme a due tagli si era spuntata; urgeva buttarla nel dimenticatoio. Ed ecco la mirabile coincidenza delle date.

Non si è sicuri nè della legge, nè dell’anno, in cui la dittatura fu sottoposta alla provocatio. Livio ce la fa sospettare tale al 439, 385, 363, 325, 314. Sembra però più ragionevole riportare l’innovazione alla terza legge Valeria de provocatione, la quale data dal 300‍[419]. Al 353, o, più sicuramente, al 209, essa comincia a sottostare all’intercessio[420]. Al 286 s’inaugura l’indipendenza e l’onnipotenza dei concilia-plebis; al 217 i poteri del magister equitum sono equiparati a quelli del dittatore‍[421]; al 210 i concilia plebis designano il primo dittatore‍[422]; e l’ultimo, nominato seditionis sedandae causa, [133] non oltrepassa i primi del IIIº secolo a. Cristo‍[423].

VI.

Alla classe dominante occorreva dunque una nuova e più efficace misura, ed ecco, il senato, interpetre di tale necessità, ricorrere al s. c. u.

Esso lo tenta al 133 contro i seguaci di Tiberio Gracco, lo vota al 121 contro Caio, al 100 contro Glaucia e Saturnino, forse al 77 contro Lepido, al 63 contro i Catilinari, al 62 contro il tribuno Nepote, al 52 contro il pretore Celio Rufo, al 47 contro il tribuno Dolabella, e al 43 contro due eredi della politica di G. Cesare, in altrettanti palesi conflitti fra optimates e populares.

Nè nei due casi, che rimangono, il s. c. u. à perduto la sua fisonomia caratteristica.

Dell’ultimo del 40, contro Salvidieno Rufo, non si conoscono gli antecedenti; e quello dell’89, sotto le pressioni di un governo radicale, che si servì delle stesse armi dei propri avversari, fu votato contro un nobile da parte di un senato, colpito di terrore pei propri amoreggiamenti e le proprie timidezze verso i nemici del medesimo.

Oltre il 40, nessun s. c. u. E non poteva darsi altrimenti.

La nuova riforma della costituzione romana, la quale, in fatto, se non in dritto, s’inaugura, da Cesare, pur [134] non risolvendo le antitesi di classe esistenti, avea soppresso la possibilità di quei conflitti politici, che avevano agitato gli ultimi due secoli della repubblica.

VII.

Cesare incarnava quell’ideale di democratico in armi da generale, cui l’esperienza di circa un secolo avea fatto intravedere ai partiti popolari come unico strumento di salvezza e di vittoria, e che essi da Mario a Sertorio, da Sertorio a Lepido, da Lepido a Catilina, aveano indarno inseguito‍[424].

Ma, pur troppo, nè il male era così rimediabile, come ai tempi di Caio Gracco, nè Cesare, preoccupato dei suoi sogni ambiziosi, tentò tutte le vie adatte e possibili di riforma.

La legge agraria del 59 è estranea alla sua dittatura reipublicae constituendae, durante la quale, il problema agrario non fu certo primo tra i suoi pensieri. Egli, del resto, trovava il demanio pressocchè esaurito, dopo che Silla ne avea dispensato la maggior parte fra i veterani, i quali, costretti al celibato‍[425], non aveano, alla loro morte, potuto impedire l’alienazione della propria possessio, e quindi la ricostituzione dei latifondi. Non avendo, anzi, avuto il coraggio di violare le proprietà, formatesi dopo tali ripartizioni, ne ripetè il metodo, e la sua legge riescì quasi del tutto a favore dei veterani dell’esercito suo e di Pompeo‍[426].

Se Cesare, da questo lato, contaminò la quistione economica [135] con interessi d’ambizione personale, non estirpò dall’altro, e forse non lo poteva, la concorrenza, che gli schiavi facevano al lavoro libero.

Senza una simile misura non si sarebbe mai potuto procedere a risultati fruttuosi. I piccoli proprietari non avrebbero potuto reggere alla concorrenza dei latifondisti; nè, falliti, avrebbero trovato lavoro.

Rimaneva a Cesare il compito di far fiorire le industrie, inaugurare il sistema rappresentativo e romperla, una volta per sempre, con la funesta politica militarista‍[427]; ma era impresa troppo ardua per le sue forze: Cesare e i Cesari furono costretti a lasciare che il problema economico sociale di Roma venisse risolto dalle elemosine delle frumentationes imperiali, dalle leggi restrittive e dalle invasioni barbariche‍[428].

La riforma Cesariana, eliminatrice dei conflitti politici, si esplica invece nel campo politico.

La nuova creazione è la monarchia militare‍[429].

Al di sopra del senato e dei magistrati, si inaugura una nuova magistratura: la magistratura imperiale. Il suo potere deriva dai comizi del popolo e dall’approvazione del senato, ma essa compendia in sè i dritti costituzionali dell’uno e dell’altro.

L’imperator è pontefice massimo, tribuno, console, censore, proconsole, e, dal senato come dal popolo, à avuto trasmesso il diritto di decidere della pace e della guerra, [136] di disporre degli eserciti, del pubblico tesoro, di nominare i proconsoli, parte degli impiegati municipali di Roma etc.

Se così i comizi, e quindi le classi meno elevate della cittadinanza, per avere trasmesso troppe delle loro competenze, cessano di partecipare direttamente alla vita pubblica, peggio accade, sotto Cesare, al senato, che cominciò allora a scontare i suoi torti, ridotto, quale dovea essere, a consiglio di stato.

Entro tali termini, codesto potere, il quale, sovrattutto, rappresentava gli interessi delle classi elevate, si trovò incapace d’inaugurare resistenza alcuna, venendo anzi assorbito dall’altro, sempre più invadente, della magistratura imperiale.

VIII.

La costituzione concepita da Cesare non fu, in tutti i suoi punti, patrimonio dell’impero.

Tuttavia le sue modificazioni non riescirono tali da permettere la risurrezione di quel conflitto di poteri, che avea dato luogo al s. c. u.

Dopo Tiberio, il potere elettorale, giudiziario e legislativo fu trasferito al senato‍[430]; ma l’opera degli imperatori non consistè che nel defraudare delle proprie competenze i comizi in pro del senato, per defraudarne poi questo in pro di sè medesimi.

L’imperatore riassunse in sè tutte le cariche civili, militari e religiose. I suoi editti ebbero valore di leggi‍[431]; e Augusto compiè ciò che G. Cesare aveva appena [137] concepito: l’imperiale tribunale d’appello, come completazione dell’imperiale giudizio in prima istanza, inaugurato dal padre‍[432].

Così à fine il s. c. u.

Non lo sospende un principio astratto di equità o di giustizia, non una visione della realtà storica, la quale constati, come ogni profonda agitazione sociale, pericolosa alle vigenti istituzioni, non può mai essere effetto di delinquenza o di degenerazione, fenomeni puramente individuali, ma indice imperioso di nuove condizioni sviluppate sotto il vecchio regime.

Nemmeno Roma comprese, che, se in tali casi, una politica conservatrice è assurda, lo dovrà esser con più ragione una reazionaria, e che in essi, specialmente, occorre agire entro quelle garanzie costituzionali, vane del resto nei giorni lieti, ma necessarie nei tristi a salvaguardare la soluzione di tutti i possibili problemi sociali. Ed anche in Roma — vecchia istoria — si corse a rintracciare una misura eccezionale; che trovò la sua fine prima ancora che fossero risolti quei problemi, i quali l’avevano indirettamente provocata.


NOTE:

1.  Lehrbuch der historichen Methode — Cfr. p. 13-32. — Leipzig. 1894.

2.  Int. senatus-consulta ultima.

3.  Queste, come le successive datazioni, saranno tutte a. C. n.

4.  Ab urbe condita libri III, 4 — erklärt von W. Weissenborn. Fünfte Auflage, besorgt von H. I. Müller — 1886 — Berlin.

5.  Dionisi — Antiquit. rom. IX, 63, ed Kiessling e Prou — Parigi.

6.  I Romani distinguevano una dictatura rei gerundae causa (per pericoli militari esterni) e una seditionis causa.

7.  Hist. rom. II, p. 135. 1830. Parigi.

8.  Les instit. politiques des R. I, p. 28 — 1882.

9.  Handbuch der röm. Alterthümer — 2, 1. pag. 135. 1843 — 67. Leipzig.

10.  Le droit public rom. VI. p, 1. p, 73 e segg. trad. par Girard — 1889 — Paris.

11.  Le Senat de la rep. romaine — I, p. 15 — 1883 — Bonn.

12.  Sull’origine e la condizione degli aerarii cfr. Becker — Op. cit. II, 1 p. 188-93 — Lange — Römische Alterthümer. I, 406-7, 439-40 — 1863. Pardon. De aerariis — 1853. Willems — Droit p. r. 93-5 — 1872. Mommsen — D. p. r. IV, 71, e n. 2 e 3, p. 72 e n. 1.

13.  Mommsen — D. p. r. VI, p. 257.

14.  Id. IV, p. 73.

15.  D. p. r. VI, p. 1, p. 257.

16.  Mommsen — L’organisation financière chez les Romains, p. 115-7 — Trad. par. A. Vigie — 1888 — Paris.

17.  Niebuhr — Op. cit. IV, p. 174.

18.  De Ruggiero — «Agrariae leges» (in «Encicl. giuridica» § 2 e segg.).

19.  Troplong — De la contrainte par corps — Prèface — X — 1848. Bruxelles.

20.  Niebuhur — Op. cit. IV, p. 369 e segg. Voigt — Die XII Taffeln II, § 122 e I, § 63 e 65 — 1883. Padelletti — Storia del dritto romano — § XXI, p. 162 — 31; XXVI, p. 194, e XXVII, n. 2 — 1878. Troplong — Op. cit. «Préface» — Id. — St. del prestito a interesse — 1845 — Modena. Huschke — Das Recht des Nexum und das altrömische Schuldrecht. Leipzig. 1846. Savigny — Über des altrömische Schuldrecht. Abhandl. der Berl. Akad. von I. 1833.

21.  Liv. VI, 11 20.

22.  VI, 11 — Niebuhur. Op. cit. IV, p. 385.

23.  Appiano — De rebus italicis — IX — ed. Didot. 1840 — Parigi.

24.  «thesauros gallici auri occultari a patribus... nec iam possidendis publicis agris contentos esse, nisi pecuniam quoque publicam avertant» [Liv. VI, 14].

25.  Op. cit. I, p. 184.

26.  D. p. r. II, p. 373, n. 1.

27.  Le sénat etc. II, p. 248, n. 2.

28.  VI, 18.

29.  VI, 20.

30.  Mommsen. D. p. r. III, 183.

31.  Cfr. Zonara [Annali, VII, 34], che in codesto passo ha presenti Livio e Dione.

32.  VI, 6.

33.  Camillo. XXXIX.

34.  Plut. Ibid. XXXVII. Il racconto di Plutarco è però erroneo perchè troppo sommario. Egli addebita a Quinzio Capitolino il primo arresto di Manlio, ma il trasporto dell’assemblea giudiziaria a Camillo, di cui non menziona la carica. Camillo era allora, secondo Livio (VI, 18), trib. milit. c. p. L’intervallo di tempo tra i due fatti oltrepassa la durata consueta della carica dittatoriale, come possiamo scorgere da Livio; onde, se potè forse un dittatore imporre l’arresto di Manlio, non potè più il medesimo presiederne l’ultimo processo. Allora era trib. c. p. M. Furio Camillo, ed è ben strano, che, con un tal uomo, si fosse pensato a un dittatore (Cfr. Liv. VI, 6.).

35.  Vite — Camillo — XXXVI.

36.  Zonara — l. c. e Dio. LXIII LXIV [Framm. I I-XXXVI].

37.  Bibliothecae historicae quae supersunt — XV, 35, 3 — 1898. Parisiis.

38.  Excerpta — XIV, 4 ed. Kissling e Prou — Parigi.

39.  Hist. rom. II, p. 64.

40.  Op. cit. II, p. 588, n. 629. Cfr. anche Ihne — Römische Geschichte I, 256-7 — Leipzig — 1868. Peter — Geschichte Roms — I, 206 — Halle 1871. Zumpt — Das Criminalrecht der röm. Rep. I, 2, 379-86 — 1875.

41.  Ibid. p. 409.

42.  Lo Zumpt infatti, (Das Criminalrecht der römischen Republik. I, 2 p. 401) non tiene in alcun conto gli scrupoli succitati contro l’autenticità dei prec. s. c. uª.

43.  Plut. Vite. «Tiberio Gracco». Appiano — Guerra civile. I, VI-XVII. Liv. Epit. Dec. VI, lib. VIII. Dureau de la Malle — Les lois agraires — [in Mémoires de l’Académie des inscriptions et belles lettres. 29 febbraio 1828]. Giraud — Recherches sur le droit de propriété chez les Romains — 1838. Laboulaye — Histoire du droit de propriété foncière en Occident, p. 804. 1839 — Laboulaye — Des lois agraires chez les Romains — Revue de législation II, 3. Paris. 1846. Macé — Des lois agraires chez les Romains — 1846. De Ruggiero — l. c. § 22-9. Dureau de la Malle — Économie politique des Romains — II, Cap. XXI-XXIII — 1840. Humbert — Sur la condition des ouvriers libres chez les Romains. [in Recueil de l’Académie de legislation de Toulouse. 1868]. Wallon — Histoire de l’ésclavage dans l’antiquité V. 2º p. 280-301; 337-66. Paris. 1879. Mommsen — Storia romana — II, 189-91; trad. it. del Sandrini — 1865. Ihne — Römische Geschichte — V. 24-55 — 1879. Leipzig. Lange — Römische Alterthümer — III, 1-16. Peter. G. R. III, 7-18 — Sörgel — De Tiberio et C. Gracchis commentatio I, II, III — 1860 — 66. Gerlach — Tiberius und C. Gracchus — 1843 — in Historische Studien — II, p. 89 e segg. 1847. Lau — Die Gracchen und ihre Zeit. Hamburg — 1854. Klimke — Beiträge zur Geschichte der Gracchen — Sagau — 1892.

44.  Ihne — R. G. V, p. 11-20.

45.  Marquardt — L’organisation militaire chez les Romains — trad. par Brissaud. p. 9. 1891.

46.  De officiis. II, 23, 71.

47.  Per gli schiavi infatti non occorrevano tutti quei riguardi, dalla legge richiesti pei liberi.

48.  Ciccotti — Il tramonto della schiavitù, p. 167 — 9, 170 — 4, 181 — 2. 1899.

49.  Id. 174-8.

50.  Cfr. De Ruggiero — Op. cit. 800-1.

51.  Il Mommsen [D. p. r. II, p. 373] qualifica d’incostituzionale codesta ripresentazione di candidatura tribunizia. Ma egli è costretto a confessare frequentissime le iterazioni di tale carica. Gli storici più autorevoli dell’antichità lo accusano infatti soltanto di «pessimum exemplum» [Liv. III, 35]. Le magistrature inferiori patrizie, come tutte le plebee, per l’appunto inferiori, le ammettevano; e il tribunato, se mai, rientrerebbe tra quest’ultime. [Mommsen. D. p. r. II, 175 e 177]. Ma era esso davvero una magistratura?

52.  Valerio Massimo, [III, 2, § 17] segna a questo momento la votazione di un s. c. u. È desso uno dei più dubbi. Anzitutto per alcune considerazioni dialettiche: 1) è presumibile che i senatori avessero votato il conferimento dei poteri eccezionali ad un console (Muzio Scevola), punto intenzionato ad usarne, come già essi sapevano [Plut. Vite — T. G. XVIII], e come realmente avvenne? 2) Dopo il rifiuto del medesimo, come spiegare l’astensione dei senatori dal conferire l’incarico al collega o ai pretori? 3) Se s. c. u. ci fu, perchè si attesero i consoli dell’anno seguente per l’inizio dei processi a carico degli imputati, [Val. Max. — IV, 7 § 1]?

Alle dialettiche sono da aggiungere le ragioni storiche. Valerio Massimo — tra gli svariati storici di codesto avvenimento — è il solo a farci menzione di tale s. c. u., e, non in una narrazione redatta ordinariamente, ma, così, di sbieco, in una raccolta di sentenze morali. Plutarco distinguerà una doppia petizione al console, perchè, dietro un s. c. u., volesse assumere il comando della repressione, dopo l’insuccesso della quale, senza votazione alcuna, P. Scipione Nasica invitò i colleghi a seguirlo.

Plutarco è molto più attendibile di Massimo, ne è posteriore, scrive di storia ex professo, e mostra di non avere ricevuto alcuna notizia della votazione di codesto s. c. u.

Dal confronto dei passi dei due A. si deduce quindi che il romano, riferendo sommariamente, abbia confuso l’intenzione colla votazione di un s. c. u.

53.  Le elezioni tribunizie, nel VII sec., aveano, di regola, luogo nel luglio. [Mommsen — D. p. r. II, p. 250].

54.  Val. Max. IV, 7, 1 ed. Kemf. 1888. Cicerone — De amicitia. II, 36. Löscher 1894. Sall. Iug. XXXI, 7.

55.  Plut. — Vite. C. Gracco. App. B. C. I, 21-7. Liv. Epit. Dec. VI, lib. X; Dec. VII, lib. Iº. De Ruggiero — Op. cit. II, 30-3. Mommsen — St. rom. II, p. 92-115. Ihne — R. G. V, 77-107. Macé — Op. cit. p. 346-54. Lange — Op. cit. III, 29-45. Peter. G. R. III, 29-41.

56.  V.i Cap. VI, § 3 del pres. lav.

57.  Sallustio — De rep. ordin. II, 8. [in «Opera» ed. Bournouf. 1827].

58.  Cic. Phil. VIII, 4, 14; Cat. I, 2, 4. Plut. C. G. XVII, 2.

59.  Cic. — De domo sua. XXXVIII, 102. App. B. C. I, XXVII.

60.  Plut. C. G. XVII.

61.  App. l. c. Sall. Iug. XXXI, 7.

62.  Liv. Epit. Dec. VII, Lib. IX. De viris illustribus. 73, 1. App. B. C. I, 28-33. Val. Max. — III, II, § 18 — Plut. — C. Mario — XXIX-XXX. Florus — Epitome rer. roman. III, 16, § 6. Orosio — Histor. adversus Paganos — V, 17, 1889. De Ruggiero — Op. cit. § 41-44. Mommsen — St. rom. II. 183-91. Ihne — R. G. V, 219-41. Macé — Op. cit., p. 365. Peter — G. R. III, 29-41.

63.  La prima volta era stata al 103.

64.  De Ruggiero — Op. cit., p. 832.

65.  Momms. — St. rom. II, 177 e segg.

66.  Il De Ruggiero, [Op. cit., § 43], ritiene che alcune delle clausole dell’ultima legge costituivano quasi un’introduzione a qualche proposta di conferimento di cittadinanza ai socii italici.

67.  Val. Max. III, 2, 18. Cic. p. Rab. perd. VII, § 20; Cat. I, § 4; Phil. VIII, § 15.

68.  Il luglio era il mese destinato alle elezioni dei magistrati patrizi [Mommsen, D. p. r. II, 249 e n. 3], e Glaucia avea testè concorso al consolato.

69.  Cic. p. Rab. perd. l. c.

70.  Ibid. — Plut. C. Mario XXX. App. B. C. I, 32.

71.  Val. Max. VI, 3, 1.

72.  Il Wilems, [Le Sénat, etc. II, 250, n. 5], ritiene che durante le guerre civili tra Mario e Silla dell’88, il s. c. u. sia stato votato per ben due volte. Il tribuno Sulplicio aveva allora proposto alcune leggi ostili agli interessi e alla politica della nobiltà. Erano consoli Silla e Q. Pompeo. Per impedirne la votazione bandirono delle feste, colle quali si sospendevano tutti gli affari in corso, privati e pubblici, il che, secondo il W., costituiva un’ordinanza di iustitium. Sulplicio rispose con una rivolta popolare; Q. Pompeo fu ucciso: Silla trovò scampo nella fuga. Ma, tornato con l’esercito, confiscatene le sostanze, fece dal Senato dichiarare hostes publici, dodici fra gli avversari, e quindi condannarli alla pena capitale. [Plut. — Silla VIII-X, C. Mario XXXV. Liv. Epit. Dec. VIII, lib. VII. Sallustio — Op. p. 507-8]. Il W. ritiene che l’ordinanza del iustitium, come la dichiarazione di hostes publici, presuppongano rispettivamente un decreto di tumultus, e questo, la votazione di un s. c. u., teoria inaccettabile per le ragioni che svolgeremo nel Cap. III, § 2. del pres. lavoro.

73.  C. Sallustii — Opera I. p. 511 «Iulii Exuperantii — Opusculum de Marii, Lepidi ac Sertorii bellis civilibus» ed. Bournouf. 1827.

74.  Plut. — Silla 27-8. Liv. — Epit. Dec. IX, L. IV. — App. B. C. 82-6. C. Sallustii — Op. l. c. — Mommsen — St. rom. II, 230-5 — Ihne — R. G. V, 374-7.

75.  C. Sallustii — Op. l. c.

76.  App. — B. C. I, 86.

77.  Le Senat etc. II, 251.

78.  Liv. — Epit. Dec. IX, lib. X. App. B. C. I, 107, Sallustii — Historiarum reliquiae — Fasc. II, p. 36 — ed. Maurenbrecher. Lipsiae — 1893. Florus — III, XXIII. Granii Liciniani — Annales — p. 23 ed. Pertz. Mommsen — St. rom. III, 25-8. Ihne — R. G. VI, 7-13.

79.  Sallustii — l. c.

80.  Plut. — Pomp. XVI.

81.  Florus — III, XXIII, § 6-7.

82.  Cat. II, 18-23.

83.  Sall. — Cat. XX. Loescher, 1885.

84.  Senza che il debito per nexum potesse dirsi teoricamente o praticamente eliminato, rimanevano invariate le condizioni dell’addictio (V.i p. 4-5 del pres, lav.), toltane forse l’esecuzione e la vendita del debitore. [Troplong — Sur la contrainte etc. Pref. p. XXXVI e segg.]. La legge Poetelia, non si sa bene se del 355 o del 323, non avea punto estirpato la consuetudine del pegno del proprio corpo (Ibid. p. XX e segg.) o di quello dei figli, come garanzia del saldo del debito (Ibid. XXV e segg.).

85.  Benchè la legge le avesse mitigate, vigeva la contraddizione più stridente fra il diritto e la consuetudine. Un pretore, Asellio, era stato assassinato per aver fatto giustizia ai debitori taglieggiati dalle usure, e, al 51, un s. c. u. terminerà per stabilirvi come minimum il 12%! [Troplong — St. del prestito a interesse — p. 41-2, trad. it. 1845. Modena].

86.  Sall. — Cat. XX e XXXIII.

87.  Cfr. Cap. II, § 1, del pres. lav.

88.  Sall. Cat. XXXIII.

89.  Ibid. — LVIII.

90.  Ibid. Sallustio non solo tace sulle relazioni di Catilina col partito democratico, capitanato da Cesare, ma vuole additarci la congiura come un monumento d’infamia per l’aristocrazia. Se fosse stato meno retore ed ipocrita, dall’orazione, che mette in bocca a Catilina in quella prima riunione elettorale, da lui scambiata per un conciliabolo sedizioso, avremmo potuto conoscere il programma politico, con cui il suo protagonista si presentava.

Tuttavia le relazioni del medesimo coi democratici debbono ritenersi come un fatto storicamente provato. Cfr. Mommsen — St. R. III, p. 158 e segg.; Wirz — Catilinas und Ciceros Bewerbung um dem Consulat für das Iahr 63, p. 21, n. 4, 1884. Tarantino — la Congiura Catilinaria p. 34-8, 44-5. È noto altresì come, pei moderni, Catilina non soggiaccia alla fama esecranda che presso gli antichi. Cfr. oltre ai citati: Hagen — Untersuchungen üb. röm. Geschichte. Par. Iª «Catilina» 1854: e Backmund — Catilina und Parteikämpfe d. Iahres 63. Progr. von Munnerstad. 1869-70. Würburg, 1870.

91.  Cic. — Pro Murena, 51.

92.  Non segno la data del giorno della votazione perchè nulla ce ne garentisce la sicurezza. Per fissarla definitivamente occorrerebbe stabilire la cronologia della prima catilinaria e l’intervallo decorso dal s. c. u. alla medesima, di venti giorni, secondo Cicerone [Cat. I, 84] e di diciotto, secondo Asconio, [In Pisonianam p. 6 (in Cic. Op. V, p. 2ª, ed. Orelli e Banter)], rettifica, non superiore ad ogni sospetto, dovendosi dubitarla creata allo scopo di far coincidere la data della votazione del s. c. u. col 21 ottobre, giorno in cui Cicerone ricorda di aver svelate le trame di Catilina (Cat. I, 7-8). Cfr. sulla questione: Hachtmann. Programma del ginnasio di Seehausen, Stendal 1877. Ogóreck. Programma del ginnasio di Rudolfswerth. 1877-8. Hermes, I, fasc. III, 1866 — Madvig. Opuscula Academica, p. 194 e segg. Hauniae 1834. Halm. Introd. alle Oraz. scelte di Cic., ed XI, collez. Weidmann, n. 51. Drumann — Geschichte Roms. V, 456. Iahrbüsher für class. Phil. 1876. Lilie. — De coniuratione catilinaria, p. 8-9. Peter — St. rom. II, 198 — Halle 1891. Pasdera — Introd. alle Catilinarie § 14, Appendice I, p. 119 e segg. — 1885 e «Sull’attentato alla vita del console Cicerone» [in «Riviste di filologia classica» 1884, ann. XIII — 1]. Hageh. Untersuchungen üb. r. Ges. Par. 1, p. 219 e segg. 1854. Ihne — R. G. VI, 256-7. Dione — ed Gros. III. Eclaircissements p. 486. Tarantino, La congiura catilinaria. App. I e II. 1898. Se ricorriamo alle altre fonti, le incertezze si moltiplicano. Sallustio, [Cat. XXIX], pone il s. c. u. come posteriore a un’adunanza in casa di M. Leca, che tutt’al più precede di 24 ore la prima Catilinaria (Cic. Cat. I, 8); Plutarco [Cicerone, § XV], come anteriore.

93.  Cic. — Cat. I, 3.

94.  Sall. Cat. XXX; App. B. C. II, 3; Cic. — Cat. I, § 1, Cat. II, § 26. Dione [XXXVII, 31] lo fa precedere al s. c. u.

95.  Cic. — Cat. II, 1 e Dio XXXVII, 33.

96.  Sall. — Cat. XXXVI.

97.  Sall.-Cat. XXXVI.

98.  Cic. — Cat. III, 14-15.

99.  Plut. Cic. XXII.

100.  Sall. Cat. LIX-LX.

101.  Dio — XXXVII, 36. Mommsen — St. rom. III, 182-4.

102.  Dio — XXXVII. 41-2.

103.  Dio — XXXVII, 42.

104.  Dio — XL. 49-50. App. B. C. II, XX-XXI, Liv. Epit. Dec. XI, L. VII. Asconio. «Argumentum» dell’orazione «pro Milone» di Cic., p. 37-42. Meneghini — Introd. alla Miloniana di Cic. XVIII-XXIII. Löscher 1889. Mommsen — St. rom. III, 308-10. Ihne. R. G. VI, 452-5.

105.  Dio — XL, 49. Asconio l. c. p. 35. Cic., Pro Mil. § 70. Il Gros, editore di Dione Cassio, interpreta il passo in discorso come se i pieni poteri fossero stati conferiti a Milone, e ciò, sia per una poco precisa designazione pronominale dello scrittore (ἔχεννον per un τὸνδε o τοῦτον), come per non aver notato che tutto il passo è chiuso fra parentesi, nè può quindi connettersi con la proposizione, che lo precede. Se poi queste ragioni linguistiche non bastassero, si potrebbero osservare: 1) come codesto sia l’unico caso di affidamento di pieni poteri ad un privato; 2) come l’essere stato Milone, in forza della sua nomina, creato collega di Pompeo per poi terminare coll’esserne processato, è un caso tanto strano da recar meraviglia come nessuna fonte l’abbia fatto risaltare; 3) come infine il confronto della testimonianza di Dione con l’elenco dei plenipotenziari, datoci da Asconio, non dà certo ragione all’interpretazione del traduttore.

106.  Clodio fu ucciso il 20 gennaio (Asc. Op. cit., p. 32). La dimane il suo cadavere fu portato nel foro, e di là nella curia del senato. Nove giorni dopo era decretato il s. c. u. (Dio XL, 49). Calcolando, se ne ricava la data del 30 gennaio.

107.  Dio l. c. e Cic. Pro Mil. § 61 e 70.

108.  C. Giulio Ces. I Comentari de bello civili. I, 1-6. Plut. Pomp. LVIII-LXI; C. Giulio Ces. XXX-XXXII. Antonio, V. Dio — XLI, 1-3. Liv. Epit. XI, IX. App. B. C. II, 30-4. Svetonio — Op. V. I. C. Giulio Cesare 29-31. 1823 ed. Baumgarten. Mommsen. St. rom. III, 335-613. Ihne. R. G. VI, 530-561.

109.  Mommsen. Rechtsfrage zwischen Caesar und dem Senat — 1857. Hoffmann. De origine belli civilis Caesariani — Berlin. 1857. Drumann. Geschichte Roms in seinem Ubergange von der rep. zur. Monarch. Verfassung — III, pp. 240, 283, 374, 390. Könisberg 1837. P. Guirand. Le différend entre César et le Sénat — Paris 1878, Iournal des Savants a. 1879, p. 438-9 [Fustel de Coulanges. La question de droit entre César et le Sénat]. Séances de l’Académie de sciences mor. et pol. Nouv. Série. Febbraio-marzo 1880. [Duruy — Le différend entre César et le Sénat — p. 185-216 e 457-98] Rivista storica it. Fasc. III, 1885. [Gentile «Il conflitto fra Cesare e il Senato»].

110.  Plut. — Ces. § 31.

111.  III, 164.

112.  De Ruggiero — Op. cit. § 56.

113.  Caes. B. C. I, 2.

114.  Dio — XLI, 3. Plut. Caes. XXX, Pomp. LIX.

115.  Caes. B. C. I, 5. Cic., Ad fam. XVI, 11; Pro rege Deiotaro, § 11. Liv. Epit. l. c. e Dio, XLI, 3.

116.  Dio — XLI, 3 — Plut. Caes. XXX; Pomp. LXI.

117.  Caes. l. c.

118.  R. G. VII, 27 e segg.

119.  Dio — XLII, 22-5. Vell. Pat. II, 68. Caes. B. C. III, 20-1. Liv. Dec. XII, L. 1. Mommsen. St. Rom. III, 439-40. Ihne. R. G. l. c.

120.  Dio — XLII, 25.

121.  Dio — XLII, 29-33. Liv. Epit. Dec. XII, L. III. Plut. Ant. IX. Mommsen. St. rom. III, 440. Ihne, R. G. VII, 119-21.

122.  Dio — XLII, 29 cfr. XLVI, 16.

123.  App. B. C. III, 1-63. Dio — XLIV-23. XLVI-31. Liv. Ep., Dec. XII, L. VII-IX. Plut. Ant. XVI-XVII. Ihne. R. G. VII, Kap. I-IV. Schiller — Geschichte der römischen Kaiserzeit — I, 1, p. 7-37. [in Handbuch der alten Geschichte III, 1883].

124.  Sui centurioni cfr. Marquardt. L’organisation militaire des Romains, (in Mommsen. D. p. r. XI, p. 36).

125.  Cic. Phil. 1, VIII-IX.

126.  Cic. Phil. VI, III.

127.  App. B. C. III, 61 e Dio — XLVI, 29.

128.  Erano i membri della commissione già incaricata per l’esenzione della succitata legge agraria.

129.  Monumentum Ancyrarum — I. 1 § 5-6 (in Mommsen — Res gestae Divi Augusti — p. LXXX. 1883). Cic. Phil. XI, § 20 — Svet. Aug. 10. Vell. Pat. II, 61.

130.  Certo dopo il 7 gennaio perchè Ottaviano compare già rivestito dell’imperium, (Mon. Anc. l. c.), che solo in tal giorno gli era stato concesso. (Orelli — Inscriptionum Latinarum collectio — III, 5359 ed. Henzen 1861).

131.  Cic. Phil. VIII, § 2. Dione, (XLVI, 29), pone erroneamente il tumultus come anteriore alla risposta di Antonio, il che è negato dalla testimonianza di Cic. (l. c.). Codesto passo di Dione è altresì inesatto, quando fa menzione di un ordine del senato ingiungente a Lepido e Munazio Planco di aiutare i consoli contro Antonio, che è invece posteriore alla prima battaglia. (App. B. C. III, 74).

132.  App. B. C. III, 50-1.

133.  Dio — XLVI, 41. Liv. Epit. Dec. XII, L. IX.

134.  Dio — XLVI, 39. Liv. l. c.

135.  App. B. C. III, 74; 80-91. Dio — XLI, 39-44. Svet. Aug. 26. Ihne — R. G. VII, Kap. V. Schiller — Op. cit. I, 1 p. 48-57.

136.  Cic. Ad fam. X, 23.

137.  Dio — XLVI, 44 e App. B. C. III, 91.

138.  Dio — l. c.

139.  Siccome, quando Ottaviano entrerà in Roma, il suo arrivo coinciderà con le elezioni consolari (App. B. C. III, 94), che ebbero luogo il 19 agosto (Dio — LVI, 30), così il s. c. u. in discorso deve allogarsi tra il 29 maggio, data del raccozzamento di Antonio con Lepido e il 19 agosto 43. Se, come opinano l’Ihne (R. G. VIII, 453) e lo Schiller (Op. cit. I, 1, p. 56), l’epistola X del L. 24 delle «Ad Familiares» di Cicerone, in data del 25 luglio, nella quale si accenna alle pretese di Augusto al consolato, potesse segnare la data dell’ambasceria militare al senato, il nostro s. c. u. potrebbe fissarsi fra la seconda metà del luglio e la prima dell’agosto susseguente.

Il Willems ravvisa entro lo stesso anno un nuovo s. c. u. nel «farsi affidare la custodia della città» di cui ci parla Dione (XLVI, 47). Ma ciò è sicuramente escluso dal contesto del racconto, dove non esiste che un’enumerazione degli onori, di cui fu insignito Ottaviano dopo l’elezione al consolato, tra cui si nota l’affidamento della custodia della città ὥστε πὰνθ’δσα βούλοιτο χαὶ ἐχ τῶν νόμων ποιεἶν ἔχειν, una frase generica, con cui si indica uno dei tanti affidamenti di poteri, che in realtà corrispondevano ad una vera e propria dictatura reipublicae costituendae.

140.  Dio — XLVIII, 33. Liv. Epit. Dec. XIII, VII. Vell. Pat. II, 76.

141.  Dio — l. c.

142.  Dio — l. c. e Liv. l. c.

143.  D. p. r. II, 374, n. 2.

144.  Dio — LIV, 10. Un semplice φρούραν bisognerebbe mutarlo in un [τὴν] φ [τῆς πόλεως] (Cfr. ed. Gros e Boissée. l. c., n. 8).

145.  Il pres. capitolo presuppone in ogni suo punto i due precedenti dei cui passi — in generale — ci risparmieremo la citazione.

146.  Caes. — B. C. I, 5. Cic. Cat. I, 4.

147.  Willems — Le sénat etc. II, 204-23.

148.  Id. — Op. cit. II, 204.

149.  Willems — Op. cit. II, 204.

150.  Quali P. Scipione Nasica (Plut. T. G. 13), Cornelio Lentulo (Val. Max. III, 2 e Cic. Phil. VIII, 14) e M. Emilio Scauro. (De viris illustribus — 72. Cic. pro Rab. perd. VII, 21).

151.  Willems — Op. cit. II, 147-8.

152.  Dio — XLII, 23.

153.  Così avvenne al 52 [Dio — XL, 49], così dovette avvenire pel s. c. u. contro Catilina (Cfr. Madvig — Opuscula accademica. I, 195. 1834), e, secondo Dionigi (IX, 63), per quello del 464.

154.  Tralascio le formule meno fedeli, che gli storici greci ci dànno, rifacendo o traducendo le latine.

155.  XXXVII, 31; XLVI, 31.

156.  Poichè siamo negli ultimi secoli della repubblica, è agevole capire come non si tratti più di un magister equitum aggregato all’antico dittatore rei gerundae o seditionis sedandae causa, sibbene ai più tardi dittatori imminuto iure, tra i quali rientra G. Cesare, investito di tale carica dal 48 al 44.

157.  Dio — XL, 49.

158.  Il conferimento dei pieni poteri era egualmente valido nel caso di assenza o di morte di uno dei consoli. Queste anzi sono le costanti ragioni, per cui spesso il s. c. u. ci apparisce intestato solo ad uno dei medesimi. [Zumpt — Das Criminalrecht der röm. Rep. I, 2, 402].

159.  Cic. — p. Rab. perd. § 20.

160.  Dio — XL, 51.

161.  Willems — Le sénat etc. II, 223 e segg.

162.  V.i Cap. II, § II, del pres. lav.

163.  V.i Cap. II, § VI. del pres. lavoro.

164.  Cic. ad Fam. XII, 10.

165.  App. B. C. III, 61. Dio — XLI, 3; XLI, 29.

166.  Cic. Phil. XI, 29.

167.  Le Sénat etc. II, p. 250, n. 5 e p. 753. Noterò en passant, che il W. cade in una lieve contraddizione, quando, a p. 253, n. 1, ammette che il senato procede alla dichiarazione di h. p. solo nel caso che il cittadino ribelle, si trovi alla testa di un esercito.

168.  Dio — XLVI, 51. Cic. Ad fam. XII, X, 1.

169.  App. B. C. III, 61; IV, 58; Cic. Phil. XI, 29.

170.  Come accadde per Cesare al 49 e per gli eserciti di Lepido e di Ottaviano al 43.

171.  App. B. C. III, 95, 96. Dio — XLVI, 52.

172.  Willems — Op. cit. II, 246, n. 1.

173.  Ibid. p. 249 e 250, n. 5.

174.  Vell. Pat. II, 16, § 4. Orosio. Op. cit. V, 18.

175.  Dio — XLVI, 29.

176.  Dio — XXXVII, 31.

177.  Plut. C. Mario. XXX.

178.  Bouché-Leclerq. Manuél des institutions romaines p. 272. Paris 1886.

179.  Bouché-Leclerq — l. c.

180.  Mommsen — D. p. r. II, 379-80, 379, n. 2 e 380, n. 1.

181.  È questa la definizione, che ne dà il Willems (Op. cit. II, 244), ma è ben difficile enunciarne alcuna sicura. Il Nissen, [Das Iustitium, p. 98 e segg. Leipzig. 1877], lo interpetra come una sospensione del ius e la proclamazione del potere assoluto dei magistrati; il Mommsen [D. p. r. I, 296-9] crede che esso possa mirare ad altri scopi estranei alla facilitazione dell’arrolamento; che siano iustitia anche i divieti tribunizi, per cui si sospende ogni affare fino al giorno della votazione di una data legge, o le indizioni di feste mobili (conceptivae) o straordinarie (imperativae), per cui i magistrati, insieme con i pontefici, potevano rendere nefasti i giorni feriali (Cfr. Willems — Droit public romain. 304-5. Louvain. 1872), e che, fin’anco ai tempi dell’impero, se ne siano decretati per imporre il lutto alla cittadinanza.

182.  Dionigi — IX, 63. Cic. (Phil. VIII, 2-6) esclude che per il decreto di bellum occorra la dichiarazione hostis publicus, ritenuta necessaria dal Willems (Le sénat etc. II, 253).

183.  Dio — XLI, 3.

184.  Tali sono le note caratteristiche, che nei loro effetti possono presentare codesti provvedimenti particolari. Trattandosi però di misure eccezionali, è bene confessare come non si possa stabilirle con precisione, e che talvolta agli effetti del s. c. u. si è pervenuto con il decreto di tumultus, di iustitium, la declaratio d’hostis publicus, e così reciprocamente.

185.  Dio — XXXVII, 43. XLI, 3. Plut. Pomp. LIX. Caes. XXX.

186.  Dionigi — IX, 63.

187.  Willems — Le Sénat. etc. II, 585 e n.e 3, 4.

188.  Sall. Cat. 30. App. B. C. III, 74, 76, 80. Dio — XLVI, 40.

189.  Cic. Phil. X, 25-6; XI, 30. App. B. C. III, 63, IV, 58.

190.  Caes. B. C. I, 6.

191.  Dio — XLVI, 44.

192.  Cic. Phil. X, § 25-6; XI, 30. App. — B. C. III, 63.

193.  Vell. Pat. II, 63. Plut. Mario — XXX.

194.  Era codesta la formula tanto del tumultus come dell’evocatio (Mommsen — D. p. r. II, 380, n. 1).

195.  Dio — XL, 40.

196.  Plut. C. G. XVII.

197.  App. B. C. I, 32.

198.  Val. Max. VI, 3, 1.

199.  Cic. p. Rab. perd. XI.

200.  Liv. VI, 19-20.

201.  Prodicere diem equivaleva a dilazionare il processo.

202.  Cicerone — De domo sua, ed. Orelli, § 101-2.

203.  Tutto ciò, seguendo la narrazione di Livio, ricorretta in quei punti in cui è possibile correggerla. Se poi Manlio fu giudicato dai duoviri con o senza provocatio, o se, come insinuano Dione (Fr. LXIII) e Gellio (Noctes Atticae — XVII, 21, 24 ed. Hertz. Lipsia 1886), gli fu anche negata quest’ultima via di salvezza, la procedura dovette senza dubbio riescire ben differente.

204.  Ascon. — In Milon. Argum. 37-42. Zumpt. Das römische Criminalrecht. II, 2, cap. 13, 14, 15, 16. Menghini — Introduz. all’Oraz. «Pro Milone» di Cic., p. 21 e segg. Gentile — Clodio e Cicerone. Cap. XII e XIII. 1876.

205.  Cic. Pro Mil. § 14.

206.  Laboulaye — Essais sur les lois criminelles des Romains — L. II, Sect. II, Cap. XX. 1845.

207.  Padelletti — Manuale di storia del diritto romano, p. 295, n. 3.

208.  Laboulaye — Op. cit. L. II, Sect. IIª, Cap. XIX.

209.  Plut. Cic. XIX e Dio XXXVII, 34.

210.  Rivestendo questo, anzi tutto e sovra tutto, un carattere politico, è naturale come la sua serie di atti d’ordine giudiziario non possa perciò rimanere vergine di altri, che più strettamente si connettono allo spirito del consesso. Così avviene, per esempio nella dispensa dei premi agli schiavi delatori, pei quali era ammessa l’emancipazione, e nella destituzione dei magistrati sotto giudizio.

211.  Sall. Cat. XXIII, XLI, XLVIII. Plut. Cic. XV.

212.  Cic. Cat. III, § 8.

213.  Cic. Cat. III, § 5 e Sall. Cat. XLV.

214.  Sall. Cat. XLVI, XLVII, XLVIII.

215.  Sall. Cat. XLVIII. L’unica infirmata di falso, durante il processo di Catilina, comprometteva M. Crasso.

216.  Cic. Cat. IV, 5 e Sall. Cat. XLVII.

217.  Cic. Cat. III, 14-15. Dio — XXXVII, 36.

218.  Plut. Cat. min. XXIII. Cic. Pro Sulla — XLI.

219.  Plut. Cic. XX e Willems — Op. cit. II, p. 180-1.

220.  Sall. Cat. LI e LII.

221.  Cesare stesso, proponendo la reclusione a vita dei Catilinari, presupponeva codesto diritto interdetto anche per l’avvenire.

222.  Sall. Cat. XXXI e Scol. Bobb. in Vatinium p. 320 (ed. Orelli).

223.  La procedura del giudizio senatorio, seguita contro Salvidieno Rufo, accusato, a quanto pare, di congiura, è da Dione, (XLVIII, 33) riferita così sommariamente da non potersene cavare alcuna norma attendibile.

224.  Cic. Pro Mil. § 14. Asconio — p. 29. Menghini — Op. cit. p. XXXVI-XXXVII e p. XXXVII, n. 1. Il senato era propenso a decidere: 1. Che i fatti in questione fossero dichiarati contra rempublicam; 2. Che fossero giudicati con le leggi esistenti, salvo a concedervi la precedenza sui giudizi pendenti. Ma Q. Fufio Caleno, indetto dal tribuno Munazio Planco, chiese ed ottenne una votazione distinta per ciascuna delle due parti della proposta; i tribuni Planco e Sallustio posero il veto alla seconda, e la procedura del giudizio restò così in facoltà del console, che la sottrasse alle norme ordinarie.

225.  Caes. B. C. I, 2.

226.  App. B. C. III, 50-1.

227.  Plut. Cic. XXI.

228.  Lo Zumpt [Op. cit. I, 2, 404] ritiene che i tribuni del popolo non vengano dal s. c. u. minimamente lesi nei loro diritti; e ciò, fondandosi sul precedente del 381, come su quegli altri, in cui la difesa della republica fu affidata anche ai tribuni. Ma tali esempi, oltre a costituire una stonatura così grave alla pratica ordinaria da indurre per ciò stesso il Mommsen a negare, come vedemmo, ogni fede al s. c. u. del 381, ci mostrano d’altro canto i tribuni del popolo in una costante e umiliante dipendenza rispetto al senato.

229.  Non ostante Dione (XXXVII, 29), che pone i comizi prima del s. c. u., e l’Iohn, [Annali di filologia classica — Suppl. VIII. 1886, p. 777], il quale ne condivide l’opinione, essi dovettero tenersi dopo il 21 ottobre, e probabilmente anche dopo il 28 dello stesso mese, [Mommsen, in Hermes I, 434], mentre il s. c. u. può, benchè difficilmente, essere solo di un giorno posteriore alla prima di codeste date.

230.  Così al 52, Q. Scipione, che Pompeo si era scelto a collega nel consolato, avea abrogato la legge di Clodio sui censori, a cui questi avea restituito l’antico diritto di espellere dall’ordine equestre e senatorio i membri che se ne fossero resi indegni, senza la garenzia di un pubblico giudizio.

231.  Dio — XXXVII, 41.

232.  Dio — XXXVII, 41.

233.  Dio — XXXVII, 42.

234.  In data di codesto mese, Catilina fu sbaragliato presso Pistoia (Dio — XXXVII, 39. Pasdera — Introd. alle Catil. p. XLI, 1885). Alla ricezione della notizia, il senato decretò la cessazione dello stato di guerra, deponendo il sagum (Dio — XXXVII, 40).

235.  Il 31 marzo Cesare arrivava in Roma [Ramorino — Introd. al «De bello civili», p. XVI, ed. cit.], ove, dalle casse dello stato, spillava i fondi per proseguire la guerra contro Pompeo (Mommsen — St. rom. III, 359-60).

236.  Appena appresa la notizia della sconfitta di Antonio [27 aprile (Bonino — Introd. alla IIª Filippica di Cic. p. XXXVII)], il senato avea ripreso le vesti dei tempi normali (Dio — XLVI, 39).

237.  Plut. C. G. XVII.

238.  Menn — De accusatione magistratuum romanorum — p. 2 1795.

239.  V.i Cap. seg., § III.

240.  Cfr. Cap. II, § IX del pres. lav.

241.  V.i ultimo Cap., § IV, del pres. lav.

242.  Plut. T. G. XIX.

243.  Plut. C. G. IV.

244.  Liv. Epit. Dec. VII, lib. 1. Cic. Pro Sest. 140. Brutus §, 128 e p. 296 e 351, Löscher. 1891.

245.  Dio — XXXVII, 26-8. Cic. p. Rab. perd. Svet. Caes. 12. Drumann — Op. cit. III, 159-64.

246.  Plut. Cic. XXIII-IV.

247.  Dio — XXXVIII, 14. Vell. Pat. II, 41. Gentile — Clodio e Cicerone. Cap. VI, 140 e segg.

248.  Cic. De dom. XVIII, 47 e Scol. bobb. p. 309 (ed. Orelli). Plut. Cic. XXXII. Cfr. Zumpt. Das Criminalrecht d. r. R. I, 2, p. 427 e segg.

249.  Cic. Pro Mil. § 14.

250.  Ascon. p. 37.

251.  I, 5-7.

252.  Cic. p. Rab. perd. § 12. Scol. Gronov. (in Cic. Op. ed. Orelli, p. 412-3). Dio — XXXVII, 42. Sall. Cat. LI.

253.  Pseud. Sallustii. In M. Tullium Ciceronem declamatio, § 5. Sulle medesime Cfr. Zumpt. Das Criminalrecht etc. I, 2, 48-69 e Lange — De legibus Porciis libertatis civium vindicibus. 1862-3.

254.  Willems — D. p. r. 171-2.

255.  Liv. Epit. VII, lib. I. Plut. — C. G. IV.

256.  B. C. I, 5.

257.  Willems — D. p. r. II, lib. II, Cap. I, § 1 e lib. III, Cap. V, § 5.

258.  Cfr. Cap. III, § 1, del pres. lavoro.

259.  Willems — Le sénat etc. II, p. 199 e segg.

260.  Dio — XL, 49. Ascon. p. 35.

261.  Mommsen — D. p. r. III, 313-82.

262.  Willems — Op. cit. II, 30-31.

263.  Willems — D. p. r. p. 166.

264.  Mommsen — D. p. r. I, 71-75.

265.  Come avvenne al 49, ledendo la lex pompeia de provinciis ordinandis, che prescriveva pel governo delle province i consoli e i pretori di cinque anni prima coll’obbligo che i comizi riconfermassero loro l’imperium (Willems — Le sénat etc. II, 589-90).

266.  Dio — XL, 55.

267.  Dio — XL, 56.

268.  Cic. Phil. VIII, § 2-6.

269.  Mommsen — D. p. r. VI, 156 e 374, n. 1, 2, 3. Willems — Le sénat etc. II, 366-7.

270.  Willems — D. p. r. p. 170 e segg.

271.  Liv. VI, 20.

272.  Willems — Le sénat etc. II, 116 e 119. D. p. r. p. 306 e segg. e p. 170 e segg.

273.  Willems — Le sénat II, Cap. VI, § 1, art. 6 e Caes. B. C. I, 5-7.

274.  Mommsen — D. p. r. I, 294.

275.  Così avevano implicitamente riconosciuto la legge Sempronia del 124 (V. p. 19 del pres. lav.) e la legge Cassia del 104. («quem populo damnasset, cuive imperium abrogasset, in senatu non esset» Asc. p. 78).

276.  Willems — D. p. r. p. 209.

277.  Cfr. Bouché Leclerq — Op. cit. 68, n. 1 e Mommsen — D. p. r. III, 347-352.

278.  «Credo di poter concludere», scrive un critico recente, «che le leges sacratae fossero plebisciti riconosciuti dallo stato patrizio e dal senato, probabilmente, o forse anche per mezzo di un’apposita legge centuriata, sacrata, ma, tranne della parte riguardante l’inviolabilità, che certo ebbe riconoscimento e conferma piena ed intera... nel 305» (449 a. C.). [Garofalo — Le leges sacratae dal 260 U. C. p. 37-1891].

279.  Willems — Le Sénat etc., II, p. 217.

280.  Plut. Cic. XX-XXI e Willems, Op. cit. II, p. 180.

281.  L’ius sententiae dicendae era tassativamente vietato ai magistrati in funzione (Mommsen, O. p. r. II, 239).

282.  Bouché Leclerq — Manuél des institutions rom., p. 271-2.

283.  Il Nissen, nel suo «Das Iustitium», fa precedere alla trattazione speciale dell’argomento alcune sue teorie sulle competenze del Senato. Crede, per esempio, che, oltre al consultum, esso abbia diritto al decretum, il quale, rispetto ai magistrati, doveva possedere un valore coercitivo (§. 2); che possa dichiarare hostis p. qualsiasi cittadino romano ne creda degno (§. 3); che, nei momenti difficili, in grazia dell’alta sorveglianza, che il Senato esercita sullo stato, possa concedere ai magistrati poteri illimitati (§. 3), e via di seguito, sino a sospendere l’ius per mezzo del iustitium (§. 7). Tali conclusioni presupporrebbero uno studio coscienzioso sulle competenze del Senato, che il Nissen non può vantare. Ma poichè il Willems, il quale si trova per l’appunto in tali fortunate condizioni, ne à fatto il giudizio, che meritavano, (Cfr. Le Sénat etc., II, 244, n. 4; 257, n. 4; 216, n. 2) il lettore non si aspetti da me una seconda confutazione.

284.  Vell. Pat. — Op. cit., II, 4.

285.  Cat. IV, 24. Di uguale tenore è la requisitoria Catoniana contro i Catilinari, riferitaci da Sallustio (Cat. LII).

286.  Cic. Pro Mil., § 8.

287.  Cat. IV, § 10.

288.  § 73.

289.  De oratore II, 106, 130, 165. In Pison. 14. De Partitione oratoria, 106.

290.  De or. § 165.

291.  III, 38.

292.  § 33.

293.  § 73.

294.  Cic. Cat. I, § 3-4. Pro Rab. perd. § 20-1. Pro Mil. § 83.

295.  Karlowa — Römische Rechtsgeschichte, p. 448 5.

296.  Cfr. Arch. giuridico XXIV, p. 420 e segg. 1880 e citazioni ibid.

297.  De legibus, § 8. De oratore II, 106, curato dal Cima. Löscher, 1886.

298.  Le Sénat etc., II, 256.

299.  Cic. — In Pis. 14; Phil. II, § 18; p. Rab. r. perd., VII e segg., etc.

300.  Willems — Le sénat etc. II, p. 225.

301.  Op. cit. II, 69.

302.  Op. cit. II, 74-5.

303.  Ascon. p. 58 — «Neve quis, cum solutus esset (ex s. c.), intercederet, quum de ea re ad populum ferretur».

304.  Mommsen — D. p. r. II, 313 e n. 1; I, 28 e n. 3.

305.  E ciò in grazia della coercitio (Mommsen — D. p. r, I, 161-2).

306.  Willems — Le sénat etc. II, L. III, Cap. VI.

307.  Op. cit. II, L. III, Cap. 1, § 5.

308.  Op. cit. II, L. II, Cap. 2.

309.  App. B. C. I, 65. Vell. Pat. II, 20 § 3.

310.  Svet. Caes. 16.

311.  Willems — Le sénat, L. III, Cap. VI, § 4.

312.  Id. II, 229.

313.  Willems — Op. cit. II, 258-9.

314.  Id. II, 230, 202, e n. 2. App. B. C. II, 35. Caes. B. C. I, 5.

315.  Dio — XL, 45.

316.  Svet. Caes. 16.

317.  Mommsen — D. p. r. III, 161 e segg. Willems — Op. cit. II, 240 e segg.

318.  III, 3, § 9 — «si senatus creverit».

319.  Liv. IV, 26.

320.  Caes. B. C. I, 6.

321.  Liv. — XXVI, 10; XLII, 10. Cfr. Willems — Op. cit. II, 557-9.

322.  Liv. Epit. Dec. IX, L. IX. Plut. — Pomp. XI. Zonara — X, 1-2.

323.  Liv. Epit. Dec. X, L. I. App. B. C. I, 105. Cic. Phil. XI, 18. Cfr. Willems — II, 584.

324.  Cfr. p. 28-29 del pres. lav.

325.  App. B. C. II, 23.

326.  Mommsen — D. p. r. IV, 381-2. Ascon. p. 46 e Sall. Iug. XL.

327.  Liv. — XLII, 21-2. Cic. de fin. II, § 54. Ascon. p. 24. Cfr. Mommsen — D. p. r. III, 126.

328.  Due notevoli delegazioni dei propri poteri giudiziari da parte dei comizi centuriati erano state quella del 317 nel processo contro i Satricani (Liv. XXVI, 33. Cfr. Liv. IX, 12, 16) e l’altra del 210 contro i Campani, al pari dei primi in istato di ribellione, (Liv. XXVI, 33), per le quali due rogationes tribunicie fecero i senatori giudici dei reati di quei due popoli, già partecipi della cittadinanza romana. Se non che, trattandosi di genti, rese tali solo in età tarda, i comizi sentivano punto o poco l’enormità dell’atto che compievano, strappandole ai loro giudici naturali.

329.  Willems — D. p. r. 175.

330.  Polibio — Historia, I, 7. Lipsiae. 1866. Dionigi. XX, 4-5 Val. Max. II, 7, § 15.

331.  Il Willems [Le sénat etc. II, 286, n. 2] giustifica il fatto col ritenere i ribelli già capites deminuti, il che è arbitrario, perchè estraneo al dritto pubblico romano, che fornì allora stesso a un tribuno del popolo gli elementi per una protesta.

332.  Willems — Le sénat etc. II, 296-7.

333.  Queste non erano salvoguardate dall’ius provocationis. [Willems — Op. cit. II, 287].

334.  Willems — Op. cit. II, 283-5 e segg.

335.  Mommsen — III, 263.

336.  Willems — D. p. r. p. 308-9.

337.  Willems Le sénat. II, 286-7, n. 2.

338.  Ibid. II, p. 731.

339.  Val. Max. IV, 7. 1, Cic. De amicitia, § 36.

340.  Plut. T. G. XX.

341.  Willems — Le sénat etc. II, p. 74 e segg.

342.  Cic. De leg. II, 14.

343.  Ibid. — 14, 31.

344.  Ibid. — 14.

345.  Dio — XXXVI, 42.

346.  Willems — Le sénat etc. II, 117-8.

347.  Cic. ad Att. V, 21, § 12; VI, 2, § 7. Circa la concessione di deroghe da leggi cfr. Willems — Op. cit. II, 19-20.

348.  Oltre alle opere che via via citeremo, ci sono state necessarie per lo svolgimento del presente capitolo: Naudet — De la noblesse et des récompenses d’honneur chez les Romains. 1863. Marquardt — Historiae equitum romanorum. 1840. Schvarcz. Die Demokratie, II, 1, 2. 1891. Dureau de la Malle. Économie politique des Romains. V.i 2. 1840. Mayr — Lehrbuch der Handelsgeschichte. Kap. III, § 14-15. Wien. 1894.

349.  Cap. I, § 1, del pres. lav.

350.  Cap. I, § 4, del pres. lav.

351.  Willems — D. p. r. L. II. sect. III, Cap. II.

352.  Mommsen — D. p. r. VI, 1, 101 e segg. Herzog [in Philologus — XXIV, 306-10].

353.  Mommsen — D. p. r. VI, P. Iª, p. 305.

354.  Willems — Le sénat etc. I. p. 49 e segg.

355.  Willems — D. p. r., p. 267.

356.  Willems — D. p. r. 306-8.

357.  Id. 819-20.

358.  De Ruggiero. «Agrariae leges» [in Op. cit.] Cap. Iº e IIº.

359.  Ciccotti — Il processo di Verre, p. 33-7. Milano. 1895.

360.  Ai tempi di Cicerone, le grandi operazioni commerciali, non ostante il divieto della legge Claudia del 219 o 220, erano, in realtà, divenute tutt’altro che incompatibili con la dignità senatoria dei grandi latifondisti. (Willems — Le sénat etc. I, 200-2).

361.  F. Mengotti — Del Commercio de’ Romani dalla prima guerra punica a Costantino, (in Economisti classici italiani. V.e 36 — 1804), p. 12-3.

362.  Cic. Pro Sestio, § 96 e segg.

363.  Willems — Le sénat etc. I, p. 189 e segg.

364.  Willems — Le sénat etc. I, 182 e segg.

365.  Willems — Op. cit. I, 175 e segg.

366.  Willems — D. p. r. p. 184.

367.  Come l’iniuria, la calumnia e la praevaricatio, o quell’infamia, nella quale s’incorreva nei casi previsti dalla lex Cassia del 104, citata a p. 89, n. 1 del pres. lavoro.

368.  Willems — Le sénat etc. I, 201 e segg.

369.  Willems — D. p. r. 51-8. Seguo le indicazioni di Dionigi, in questo luogo più attendibili di quelle di Livio.

370.  Willems — D. p. r. 159.

371.  Willems — D. p. r. 160-2.

372.  Willems — D. p. r., p. 154-6.

373.  Willems — D. p. r. p. 50 e 165.

374.  Willems — D. p. r. 87-96. Quest’ultima, motivata da ragioni indiscutibili e inappellabili, implicava la rimozione da tutte le tribù.

375.  Willems — D. p. r. 98-9; 109-10, 123.

376.  Bélot — Histoire des chevaliers. I, 88 e 91. 1866.

377.  Bélot — Op. cit. I, 89-93.

378.  Willems — II, 88-92, 93-6, 99.

379.  Willems — D. p. r. 268-9.

380.  Gentile — Le elezioni e il broglio nella republica romana, p. 67. Milano, 1879.

381.  Willems — D. p. r. 319-20.

382.  De Ruggiero — Op. cit. Cap. III e segg. Non sappiamo nulla della sorte della Plotia del 70.

383.  V.i Cap. II, § 2-3 del pres. lav.

384.  Mommsen — St. romana II, 195-200. Ihne — R. G. V, 242-52. Bélot — Histoire des chevaliers romains. II, 254 e segg.

385.  Mommsen — Op. cit. II, 230-37. Ihne. R. G. — V, 242-52.

386.  Mommsen — Op. cit. II, 237-40 e L. IV, Cap. X. Ihne — R. G. — V, 405-30.

387.  Willems — D. p. r. 253-4. Lo Zumpt ritiene altresì che, sotto Silla, i comitia tributa siano stati soppressi. [Das Criminalrecht — II, 1, 433. n. 150].

388.  Déloume — Les manieurs d’argent à Rome — p. 328-9. Paris. 1890.

389.  Mommsen — Op. cit. III, p. 20 e segg. Ihne — R. G. VI, 48-55.

390.  V.i Cap. IIº, § VI del pres. lav.

391.  Mommsen — Op. cit. III, 93-7. Ihne — R. G. VI, Cap. 7.

392.  V.i Cap. II, § VII del pres. lav.

393.  Mommsen — Op. cit. III, L. V, Cap. X-XI.

394.  Zumpt — Das Criminalrecht etc. II, 1, 57-89. Laboulaye — Essais sur les lois criminelles des Romains — p. 216-27. 1845. Bélot. Histoire des chevaliers romains — II, 231-4. 1866.

395.  Willems — D. p. r. 309. Zumpt — Op. cit. II, 1, 188-96; 264 e segg.; II, 2, 179 e segg. Laboulaye — Op. cit. p. 231 e segg. Bélot — Op. cit. II, 267-72; 276-93.

396.  Gentile — Cicerone e Clodio, p. 126 e segg.

397.  Bouché-Leclerq — Les Pontifes de l’ancienne Rome, p. 327-8, 1871.

398.  Ibid. p. 329-30.

399.  Ibid. p. 331.

400.  Ibid. p. 334-5.

401.  Daremberg e Saglio — Dictionnaire des antiquités grecques et romaines. Fasc. 16, p. 1296. Liebenam — Zur Geschichte und Organisation des römischen Vereinswesens. p. 20-4, 1890.

402.  Liebenam — Op. cit. p. 24-5 e Gentile — Clodio e Cicerone, p. 118-9.

403.  Liebenam — Op. cit. 25-6.

404.  La legge Licinia de sodaliciis, presentata al 55 dal console Crasso, un democratico, è legge de ambitu, e non de vi. [Laboulaye — Op. cit. p. 293-4].

405.  Gentile — Le elezioni e il broglio etc. 221-304. Laboulaye — Op. cit. lib. II, sect. IIª, cap. XIX. La legge Calpurnia, d’iniziativa del senato, à la sua spiegazione in una nuova concorrenza demagogica, che esso volle tentare contro la legge de ambitu del tribuno Calpurnio (Laboulaye — Op. cit. p. 287); il s. c., che precesse e preparò l’analoga lex Tullia, fu votato sotto il terrore delle candidature di Antonio e di Catilina, e, (vedi irrisione!), contemplava reati de vi (Laboulaye — Op. cit. p. 289); la legge Aufidia, infine, del 71, caldeggiata dal senato, era diretta contro Pompeo, allora coalizzato coi democratici. (Laboulaye — Op. cit. p. 290).

406.  Servais — La dictacture. Paris. Dupond — De dictatura et magisteriis equitum — 1875. Mommsen — D. p. r. III, 161-97.

407.  Mommsen — D. p. r. III, 191 e Willems — Le sénat etc. II, 336-7.

408.  Mommsen — l. c.

409.  Liv. IV, 26.

410.  Liv. VIII, 22; XXIII, 12.

411.  Liv. VII, 17.

412.  Mommsen — D. p. r. III, 187-9. Servais — Op. cit. 21-32.

413.  Mommsen — D. p. r. III, 189.

414.  Servais — Op. cit. 18-21.

415.  Servais — Op. cit. 32-33.

416.  Mommsen — D. p. r. III, 169.

417.  Mommsen — D. p. r. III, 171.

418.  Willems — Le sénat etc. II, 79-86.

419.  Mommsen — D. p. r. III, 188-9.

420.  Id. — D. p. r. III, 189, n. 4.

421.  Id. — D. p. r. III, 169.

422.  Mommsen — D. p. r. III, 171.

423.  Willems — Le sénat etc. II, 242. Quanto alla dictatura rei gerundae causa, di natura affatto diversa, le ragioni della sua fine si debbono ricercare nelle necessità stesse della tattica militare, richiesta dalle nuove grandiose guerre estere degli ultimi secoli della republica. (Cfr. Mommsen — D. p. r. III, 193).

424.  Mommsen — St. rom. III, 188.

425.  Dureau de la Malle — Économie politique etc. II, 252-3.

426.  De Ruggiero — Op. cit. § 58-62.

427.  Ferrero — Il Militarismo, p. 174 e segg. Milano 1898. Bélot — Op. cit. II, p. 419-25. Dureau de la Malle — Économie politique des Romains — II, Cap. XXII, XXV, p. 495-6. — Montesquieu — Grandeur et décadence des Romains, p. 62 e 65. Paris, 1842.

428.  Papencordt — Geschichte der Vandalischen Herrschaft in Afrika. L. III. Berlino. 1837.

429.  Mommsen — St. rom. III, 430-532.

430.  Bouché-Leclerq — Manuél des instit. rom. 142-4.

431.  Ibid. 147-150. Mommsen — D. p. r. V.

432.  Mommsen — St. rom. III, 462-3.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.